IV - Morire di tristezza

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Mi incamminai verso la stanza con la testa piena di pensieri.
Mille domande si sfumavano in una sbiadita confusione generale.

Il corridoio si era fatto vivace mentre io mi guardavo allo specchio, si sentiva provenire da ogni stanza un lieve brusio di voci, un effervescente calpestio di passi.

Mi avvicinai alla porta della stanza che ora era socchiusa, delle voci provenivano dall’interno.
Entrai titubante.
“Cazzo vuoi?” Mi accolse uno di loro con voce maschile; all'interno degli omoni dal viso sporco di terra e la maglia zuppa di sudore, alti almeno due metri, con un fisico da giocatori di football.
I loro occhi si erano fermati su di me, mi studiarono in cagnesco. Nella stanza era caduto il silenzio.
“Io… sono nuovo” tentai di dire.
Loro non si curarono di me, scoppiarono a ridere sbeffeggiandomi:
“Durerai un giorno.”

Continuarono a fare le loro cose; alcuni si spogliavano, altri si asciugavano il viso congelato dal sudore. Poi, presi i loro asciugamani, si diressero verso le docce, scontrandomi e dandomi spallate.

Ero rimasto impietrito sull’uscio della porta, con lo sguardo basso, senza il coraggio di guardarli in faccia.
Uno di loro, in particolare, l’ultimo della fila, mi rivolse uno sguardo sinistro che colsi con la coda dell’occhio; un ragazzo giovane dai lineamenti squadrati e una peluria bionda accennata, fisico da armadio a tre ante e un inquieto velo di sconforto negli occhi di ghiaccio.

“Benvenuto” mi sussurrò all’orecchio con una voce rauca e ruvida come carta vetro.
Un brivido mi percorse la schiena.

Sparirono nella penombra dei corridoi sbattendo forte la porta alle loro spalle.

Rimasi da solo, in quella stanza sporca di polvere e sudore, a fissare le pareti scrostate dal tempo e dal silenzio.

Non sapevo cosa fare.
Non sapevo dove fossi.
Non sapevo neanche chi fossi.

Mi appoggiai appena al letto, pronto a lasciar libere delle lacrime aride che non volevano uscire. Sentii un rumore e alzai la testa di scatto, impaurito. Proveniva dall’altra stanza, tornai ai miei pensieri.
Dove ero finito? Cosa mi stava succedendo? Mi chiedevo se fosse vera quella storia che mi avevano raccontato i medici; ero davvero un soldato? Il mio fisico era diverso da quello degli altri e non riuscivo a sentire alcun tipo di moto interno che mi ricordasse una cosa tanto importante. Come avrei potuto dimenticare una decisione probabilmente presa con attenzione e riserve, una scelta di vita non comune. Fino a quel momento ogni azione che aveva un qualcosa a che fare col passato mi aveva mosso qualcosa dentro, aveva aperto delle ferite nella mia mente, aveva portato dei ricordi o comunque delle sensazioni a galla. Riguardo questo, nel profondo del cuore, seppur non mi conoscessi affatto, sentivo che quella non era la vita che avevo scelto di condurre. Sapevo di non aver mai voluto questo per me. Sentivo di non aver mai avuto nulla a che fare con quel mondo così inusuale.

Eppure ero lì, senza riuscirne a capire il perché, dentro quella gabbia di dolore, quell’oscura e opaca sbavatura del mondo, in quel manicomio…

Il manicomio è una grande cassa di risonanza
e il delirio diventa eco
l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai,
maledetto, su cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta.

Mi vennero i brividi. Una forte fitta mi percorse la fronte da tempia a tempia, come una scintilla, come una strappatura su un foglio di carta.

Da dove venivano queste parole? Era forse un ricordo?

Una gelida malinconia mi abbracciò forte, i miei pensieri si ammutolirono e una solinga - bollente - lacrima mi solcò la guancia. Mi rannicchiai su quella branda, come un cucciolo che si nasconde nel ventre della madre e mi abbandonai al vuoto che tutte quelle domande senza risposta, creavano in me. Rimasi immobile, sotto quel lenzuolo di pietra e mi addormentai con gli occhi intrisi di malinconia.

Non volevo svegliarmi il giorno dopo. Non sapevo come affrontare tutto ciò. Non ricordavo nulla della mia vita, non ricordavo nulla di me. Mi sentivo come se non fossi mai esistito, continuavo a perdermi nei corridoi impolverati della mia mente, dove non riuscivo a trovare altre se non vuoto e confusione.

Quella notte, speravo di morire di tristezza.

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