XVI - Aeroplanini di carta

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Le giornate volavano via come aeroplanini di carta.

Mi ero messo il cuore in pace, avevo accettato quella vita e dopo qualche settimana la routine di allenamenti e lezioni belliche iniziava a piacermi; mi dava un accenno di equilibrio e stabilità mentale che mi sembrava non aver mai avuto. Tra scarpinate sotto la neve, trincee e lunghi e interminabili percorsi nel fango, iniziavo a farmi le ossa con quel tipo di vita; il respiro iniziava a mancarmi di meno, le gambe si facevano più forti e i muscoli erano sempre più tonici. Ero stupito da quanto velocemente il mio corpo stesse cambiando. Mi guardavo allo specchio di rado ma quando, una sera, mi fermai davanti al mio corpo appena uscito dalla doccia, rimasi affascinato dalla prepotenza delle mie nuove linee. I bagni erano deserti a quell'ora e i raggi della luna si riflettevano sugli specchi appannati. Mi fermai davanti al lavandino e passai una mano sul vetro coperto dal vapore delle docce. Lasciai cadere l'asciugamano che portavo alla vita e osservai in silenzio le gocce d'acqua che scorrevano piano dal mio corpo, tracciando linee invisibili sulla pelle chiara e scurendo appena i miei peli dorati. Alzai lo sguardo allo specchio: le spalle erano diventate larghe e tondeggianti, le vene sui bicipiti pulsavano al minimo movimento del braccio e il petto era sodo e pieno. Le mie cosce erano diventate tozze e muscolose, i quadricipiti erano forti quanto le gambe di un cavallo. Non capivo come avessero fatto i miei muscoli a gonfiarsi così tanto in così poche settimane.
Il mio corpo era sempre più massiccio e robusto.

Dopo il litigio in camera, Andrew fece spostare quel soldato in un altro dormitorio.
"Ti trovi bene con gli altri?" mi chiese.
"Benissimo" risposi.
Ed era vero. Il mio rapporto con Chris e con i fratelli Clark era davvero impagabile; erano esageratamente gentili con me.

Sasà mi insegnò a radermi. Era il più grande del gruppo, doveva avere poco più di 40 anni e aveva dei modi di una dolcezza disarmante; il suo senso paterno era una delle cose più preziose che avessi mai visto. Non parlava molto, anzi non parlava mai, ma con un solo sguardo era in grado di rasserenare anche il più infausto degli animi. Ogni volta, se si faceva particolare attenzione, con un suo sguardo gentile sembrava di poter sentire: "Sei al sicuro, non ti preoccupare."
Un giorno rimanemmo solo io e lui in stanza, era un pomeriggio in cui perfino la luce del sole sembrava appisolarsi. L'esercitazione del pomeriggio era saltata perché il generale baffo lungo aveva avuto qualche problemino di stomaco e si diceva in giro che avesse portato il cuscino in bagno per evitare di fare avanti e indietro.
Chris e Aaron si unirono ad altri soldati che decisero di spendere il loro tempo libero giocando a carte, fumando sigarette di contrabbando e ubriacandosi. Io e Sasà preferimmo rimanere a letto. Lui leggeva un libro, io mi grattavo il viso che mi prudeva per la peluria ispida che continuava a crescermi sul viso.
"Che leggi?" gli chiesi.
Lui si voltò lentamente, mi sorrise appena chiudendo il libro e lasciando un dito in mezzo alle pagine. Mi mostrò la copertina quasi arrossendo. Era un romanzo rosa, uno di quelli da pochi euro.
Sorrisi. Era strano vedere un uomo virile come lui leggere un libro del genere. Mi avvicinai a lui poggiando una gamba sul letto dopo aver chiesto con gli occhi il permesso.
"Non giudicarmi" fece lui con tono sottile.
"Di cosa parla?"
"Un uomo e una donna che si innamorano. Scontato, abbastanza scadente. Mi piace."
Rimasi a fissarlo per qualche istante, estasiato dalla sua semplicità. Avrei voluto chiedergli per chi lo stesse leggendo, se avesse il nome di qualcuno dipinto su un piccolo spazietto del cuore, ma decisi di evitare per non sembrare invadente. Sasà Clark era una delle persone più riservate che avessi mai conosciuto.
Gli sorrisi, sbadigliai e ripresi a grattarmi la guancia prima di tornare al mio giaciglio di meritato ozio.
"Perché non la levi?" disse tutto ad un tratto.
"Scusa?"
"La barba. Sembri un pulcino spennacchiato."
Divenni rosso, "non... ricordo come si fa."
"Vieni."

Andammo in bagno, mi disse di sciacquarmi la faccia con l'acqua calda - nonostante definirla così fosse un eufemismo dato che era a malapena tiepida e solo in alcuni momenti della giornata - e mi spalmò alla bene e meglio della schiuma da barba sul viso. Mi prestò il suo rasoio e mi fece vedere come fare con mano delicatissima cercando di non tagliarmi. Io lo osservavo affascinato: i suoi occhi scuri e caldi mi facevano sentire protetto, al sicuro. Mi sentivo come un bambino sul sedile posteriore dell'auto che non deve preoccuparsi della strada o di qualunque altra cosa perché papà sta guidando e la mamma è accanto che guarda fuori dal finestrino.

Al sicuro, come se ci sarebbe sempre stato lui a proteggermi.

D'improvviso nella mia mente balenò l'idea del mio vero padre, di mia madre, di una famiglia, di qualche amico. Ne avevo avuti anche io? Che ne era stato di loro? Mi chiedevo se sapessero che fine avessi fatto, se sapessero che ero lì, che avevo perso la memoria e che stavo per andare in guerra.

Stavo per andare in guerra.

Quell'idea non mi aveva ancora sfiorato la mente da quando ero lì. Forse perché non sapevo neanche cosa fosse o forse perché il mio cervello era troppo debole per realizzarlo.
Quel pensiero mi cadde addosso come una trave di ferro.

"Fatto" disse Sasà.
Mi guardai allo specchio accarezzandomi il viso. Era liscio e morbido come cotone profumato.
"Grazie mille... Sa...Soldato Clark" dissi.
"Se proprio ci tieni, puoi chiamarmi Sasà" disse alzando gli occhi al cielo. "Basta che non fai come quello scellerato di Aaron."

Da quel giorno non ci separammo più. Eravamo sempre insieme. Cercava sempre di darmi una mano, sia nelle esercitazioni che negli allenamenti. Forse la mia giovane età e il mio viso da quindicenne smarrito gli avevano fatto scattare qualcosa, una specie di senso paterno o una pena disinteressata. D'altro canto io avrei fatto di tutto per lui, cercavo sempre di rubargli qualche parola, qualche segreto che quegli occhi corvini non volevano lasciarsi scappare. Sapevo che aveva qualcosa di grande alle spalle e speravo che un giorno, quell'uomo virile e paterno, avesse avuto voglia di confidarsi con me.

Per distrarmi e fare qualche risata c'era Aaron, riservato e taciturno quasi quanto il fratello, più spontaneo e ingenuo. Vedeva la vita in modo infantile, viveva alla giornata e non si interessava di tenersi i suoi pensieri per sé. Aveva un cuore d'oro nonostante alle volte rasentasse i confini dell'immaturità: non aveva mai imparato a stare al mondo, aveva sempre chiuso gli occhi e aveva voltato la testa ai problemi. C'era sua fratello Sasà che li risolveva.
Un giorno, mentre giocavamo a carte, gli chiesi dei suoi genitori.
Il suo viso si fece plumbeo e insicuro.
"Non ci sono più."
"Scusami... io stavo solo cercando di far riaffiorare qualche ricordo. Scusami davvero."
"Non potevi saperlo" fece una pausa lasciando cadere le carte sul tavolo. "Loro non ci sono mai stati a dire la verità. Io e Sasà siamo cresciti da soli... lui c'è sempre stato per me. Credo che cercherà di farlo sempre, ma vorrei tanto si prendesse cura di sé. Un giorno, io avevo appena 10 anni, lui poco meno di 20, ci è arrivata la notizia. Un incidente. Non potrò mai perdonarli per averci abbandonati così."
Mi avvicinai a lui e gli posai una mano sul braccio. Non sapevo cosa dire.
"Mi dispiace..."
Lui mi abbracciò forte e scoppiò a piangere. Non avevo mai visto un accenno di tristezza nei suoi occhi prima di allora. Era davvero bravo a nasconderla, sapeva fingere sorrisi come nessun'altro.
Gli accarezzai piano la schiena in silenzio. Quando si calmò mi guardò negli occhi, tremava.
"Va tutto bene. Non ti fa bene vivere nel passato. Sfogati."
"Nessuno mi ha mai ascoltato" sussurrò.
"Come?" chiesi io confuso.
"Nessuno."
Mi si spezzò il cuore. Tutti lo trattavano come un bambino, pensavano fosse superficiale e ignorante. Io cercai di conoscerlo per chi era veramente.

I fratelli Clark avevano dei modi di fare davvero unici: nascondevano sentimenti come dei veri uomini e donavano tutto quello che non avevano mai ricevuto. Giorno dopo giorno, mi sentivo sempre più vicino a loro.

Purtroppo la situazione non era la stessa con il tenente Andrew. Tra noi era caduta una spessa muraglia di indifferenza che mi gelava il sangue. Era diventato il tenente Costas anche per me e ormai non vedevo altro che freddo e grezzo marmo nel suo cuore.

Mi dispiaceva vederlo così, perennemente cupo, con un'aura di sconforto sulle spalle, quasi come dovesse portarsi il peso del mondo addosso; ma non potevo farci niente, quel rapporto così gelido e impersonale non poteva che farmi bene.

Ci vedevamo ogni mattina in palestra e ogni sera nel suo ufficio. Mi raccontava delle due Guerre, mi spiegava le logiche della politica internazionale e cercava di farmi imparare gerarchie militari che non sarei mai riuscito a ricordare.

Odiavo quelle ore. Scorrevano lente come ghiaia in una clessidra. Prendevo appunti e passavo le notti a rileggerli, temendo che Andrew potesse farmi delle domande, ma tutto quello di cui mi importava erano i suoi occhi annacquati dalla stanchezza. Passavo ore a fissarli e mi ci perdevo ancora e ancora, poi riprendevo ad ascoltare e a prendere appunti. Quando smettevo di scrivere il suo tono di voce cambiava: non mi guardava mai quando mi raccontava della notte dei cristalli o dell'attentato di Sarajevo o di qualunque altro evento storico importante, ma quando non sentiva più la biro strofinare sulla carta, il suo tono di voce cambiava, diventava più sottile.

Certe volte mi capitava di pensare che si sentisse a disagio.

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