XV - Pompelmo e mandarino

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Aprii gli occhi la mattina dopo, l’alba fredda dell’inverno si affacciava timida dalla finestra e mi accarezzava le gote. Sbattei qualche volta le palpebre, mi strofinai gli occhi e per qualche impalpabile attimo dimenticai tutto quello che era successo la sera prima; sentivo solo il sole tiepido sul viso e un morbido tepore che mi avvolgeva, rotondo, profumato, tutto intorno al corpo, una morbida coperta in lana e un comodo cuscino di piume.

Alzai lo sguardo, mi guardai intorno. Era una stanza impolverata e poco vissuta, un tavolino con pile di carte e documenti, una macchina per il caffè e qualche cornice sul muro. Quattro strettissime pareti, un divano morbido e largo, su quale ero stato adagiato. Spinsi lo sguardo oltre, verso la porta socchiusa e intravidi una carta da parati impossibile da non riconoscere: era quella dello studio di Andrew.

Uno specchio che cade in mille pezzi; tornò tutto chiaro, in meno di un attimo, tutta la rabbia, la fatica, la tristezza e la follia della sera prima si erano disposti al loro posto nella mia mente. Un puzzle dai pezzi piccoli, molti dei quali erano andati persi.

Sbuffai. Sospirai e mi portai quella morbida coperta sin sopra la testa. Non volevo affrontare nulla di tutto ciò, volevo solo restare lì avvolto da quel tenero calduccio e quel profumo accennato. Odorai meglio: qualche goccia di pompelmo e mandarino dolcissimo mescolate a dense note di legno e sale marino. Un profumo dolce ma intenso allo stesso tempo, avvolgente e inebriante quanto l’ambrosia, vellutato.

Mi ci immersi. Avvolsi il mio viso e il mio corpo con quella stoffa poco ruvida, contorcendomi e abbracciandone il tepore, sentendo sfregare la lana sulla pelle.
Era ovvio. Era suo quel profumo.

Non vedrò mai Taranto bella
non vedrò mai le betulle
né la foresta marina.

Mal di testa, solite domande inevase. Quella poesia…

Mi aveva portato nel suo ufficio. Non ero certo che lo avrebbe fatto, pensavo che mi avrebbe lasciato morire assiderato sotto la neve; la mattina dopo qualcuno sarebbe inciampato sul mio corpo coperto dalla neve caduta nella notte. Labbra viola. Dita nere. Cristalli di ghiaccio sulle ciglia. E forse mi avrebbero cremato o buttato in un fosso poco distante. Invece no. Andrew mi aveva preso in braccio, scaldato e fatto dormire nel suo letto – o meglio divano – impregnato del suo profumo.

Criptico quell’uomo, ai limiti dell’incoerenza.

Mentre mi immaginavo la scena di Andrew che mi caricava di peso sulle spalle e con poca delicatezza mi portava in quella stanza, lui entrò con passo leggero. Due profonde occhiaie gli marcavano gli occhi, la divisa da tenente era tutta stropicciata. Si avvicinò piano a me, io feci per alzarmi e mi misi seduto. Si avvicinò ancora con passo felpato; nella stanza si sentivano solo i nostri respiri un po’ confusi che addensavano l’aria.

Si sedette sul tavolino, stropicciando appena i fogli che c’erano sopra. Il suo viso ancora vicino al mio, i suoi occhi incatenati a me. La bocca mi si fece secca.
“Come va?” la sua voce era spezzata, occhi bassi, qualcosa di non detto in gola.
“B-bene… credo” sussurrai.
“Mi dispiace…” il suo viso era triste e contrito, la sua voce forzata.

Perché mi chiedeva scusa? In fondo era il suo lavoro, era un mio superiore. Non mi doveva niente.
Lo interruppi posandogli una mano caldissima sulle sue incociate tra le ginocchia.
Erano tiepide come l’alba d’autunno.

“Non devi…”
Rimanemmo in silenzio a fissarci. Sentire la sua pelle levigata sotto le mani era la cosa che mi sembrava di aver atteso per anni. Ritrassi la mano. Mi misi in piedi:

“Quando inizia l’allenamento?”

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