Due mesi dopo
La neve soffiava forte e cadeva giù come lacrime di gelo in un vortice spietato di freddo. Camminavo senza sosta da giorni, riparandomi il viso con il braccio dalle schegge di vento che mi aprivano la pelle. La divisa militare era completamente bagnata e il ghiaccio era penetrato così in profondità da privarmi di ogni ricordo di tepore e primavera.
Le montagne della Russia erano così assiderate e contaminate dal nucleare, che i fiocchi di neve che cadevano al suolo brillavano di radiazione rosata, riflettendo su quel bianco candido la crudeltà della guerra.
Sapevo che era la strada giusta; avevo percorso quel sentiero scosceso ormai per tre volte, giravo in torno da ore, ma sentivo che mi stavo avvicinando, nell'ultimo spazietto rimasto asciutto del mio cuore sentivo di essere quasi arrivato.
La sera stava per calare ancora e mi ero ripromesso che non sarei rimasto una sola notte in più in mezzo a quella tundra di ghiaccio, da solo, in mezzo ai lupi; a costo di camminare tutto il giorno. Sarei dovuto arrivare a destinazione prima che l'ultimo raggio di sole malato smettesse di far brillare quella neve tossica. Sarei riuscito a sopravvivere un'altra volta, ad un altro tranello della vita, perché prima che la guerra o l'ipotermia potessero spedirmi all'altro mondo, avevo ancora una cosa da fare.
Vidi un casermone sul cucuzzolo di una sporgenza poco distante. Doveva essere quello, doveva essere la baita.
Se non si fosse congelata appena dopo essere caduta dal mio occhio, una lacrima tiepida mi avrebbe scaldato la pelle ghiacciata, coperta da squame d'inverno e stalattiti sulla barba che mi cresceva incolta da non so quanto tempo.
Una ripida salita mi separava da quella casupola abbandonata ma la bufera perenne di quelle montagne rendeva l'ascesa impossibile. Decisi di fermarmi a riposare, sperando che la tormenta scemasse prima che si facesse buio: mi nascosi in un'insenatura della parete rocciosa corrosa dal ghiaccio e provai un'immediata sensazione di piacere nel non sentire più quelle lame di freddo sulle guance.
Mi sfilai i guanti, cosa che richiese una decina di minuti; muovere le dita mi causava un dolore atroce, come se avessi intinto le mani in un pentolone di cera bollente e le mie ossa fossero diventate friabili come legno bagnato. Quando riuscii a sbrinare gli occhi accecati dalla neve, notai che le punte delle dita stavano diventando nere e che le unghie sembravano lì lì per staccarsi. Trattenni un urlo di terrore e mi morsi la lingua, mancava poco ormai, non potevo arrendermi in quel momento.
Con le mani che imploravano pietà cercai di prendere qualcosa nello zaino, qualcosa da mangiare, un po' di acqua da bere, ma l'impresa sembrava troppo grande. L'acqua era congelata e le dita mi facevano troppo male per rovistare tra le provviste. Decisi di lasciar perdere e con le poche forze che mi rimanevano tirai fuori la corda da scalata, moschettoni e piccozze. L'idea di scalare quella parete ghiacciata in mezzo alla tormenta mi paralizzava ma non ero arrivato fino a lì per nulla.
Mi misi seduto e mi raggomitolai elemosinando calore. Ero così stanco che i miei muscoli tremavano, i piedi mi facevano così male che non avevo il coraggio di vedere quanto sangue avessi nelle scarpe. Rimasi inerme ad aspettare che mi tornassero le forze, sperando di trovare, nel profondo, il coraggio di affrontare una delle cose che mi spaventavano di più in assoluto: la verità.
I miei occhi erano pesanti quanto la neve e la stanchezza mi faceva mancare il respiro.
"Se ti addormenti, morirai assiderato." Pensavo, ma non sapevo dove trovare le forze per ascoltare i miei pensieri.
Gli occhi mi si chiusero veloci e scivolai in un sonno stregato e lastricato di ghiaccio.
Eravamo nella sua tenda, eravamo riusciti ad entrare in Russia senza problemi. I primi scontri furono agghiaccianti ma io e Andrew stavamo bene, avevamo perso molti compagni ma stavamo procedendo. Lui guidava la prima compagnia ed eravamo nello stesso reggimento. Eravamo insieme, abbracciati sulla sua branda. Fuori faceva freddo ma il suo corpo era più caldo di una stufa. Mi stringevo a lui perché finalmente potevo, finalmente non dovevo nascondere quello che provavo per lui. Finalmente. Lo stringevo forte perché fuori la guerra era disumana e ormai la morte non mi faceva più paura. Avevamo fatto l'amore. Era quasi mezzanotte e non volevo smettere di guardarlo perché se mi fossi addormentato sarebbe arrivato il mattino e sarebbe tornata la guerra. Ad ogni sveglia un colpo al cuore e ogni sera la possibilità di dimenticare tutto unendomi ancora e ancora con il corpo di Andrew. Un incendio nel campo. Fiamme rosate e saette azzurre. Stiamo morendo. Andrew stiamo bruciando. Lui piangeva, mi porse dei fogli piegati in due. La carta era porosa. Li osservai: sulla prima pagina bianca, solo una scritta, la sua calligrafia elegante ed essenziale.
Per Luce.
Lo guardai negli occhi per l'ultima volta fino a quando una lingua di fuoco mi avvolse tra le sue fiamme.
Soprassalii. Ormai era quasi sera, si era fatto buio. Il fuoco di quel sogno mi ardeva ancora nel petto. Le articolazioni mi si erano congelate ancora di più e il mio cuore era talmente freddo che non lo sentivo più battere.
Dovevo sbrigarmi, dovevo scalare quella parete. Uscì dal mio riparo: la neve continuava a spirare senza pietà e l'ululato dei lupi spaccava il ronzio del vento. Tentai invano di sistemare i moschettoni e i chiodi ma dopo il secondo tentativo mi scivolarono di mano cadendo verso l'abisso bianco ai miei piedi. Lasciai perdere, legai la corda ad un masso pesante alla mia destra e me la assicurai alla vita, non avrebbe mai retto il mio peso ma era il massimo che potessi fare. Afferrai le piccozze con le mani spaccandomi le falangi ghiacciate e mi avvicinai alla roccia. Con il fuoco della rabbia che mi bruciava dentro conficcai l'arnese appuntito nel ghiaccio e facendo forza sulle punte degli scarponi chiodati iniziai a tirarmi su.
La mano mi tremava sull'impugnatura e i piedi mi scivolavano senza rimedio come su un lago di marmo ma andai avanti, conficcai l'altra lama nel ghiaccio e mi tirai su, ancora e ancora. Dovevo farcela, dovevo scalare quella parete, dovevo arrivare in cima.
Un'altra picconata. Un altro sforzo e un altro ancora. Mi tremavano le braccia, non riuscivo a tirarmi su, scivolai. Il mio piede sinistro perse la presa. Mi cadde una piccozza, mi aggrappai con entrambe le mani all'altra e mi morsi la lingua così forte da farmi male.
"Non posso farcela. Non posso farcela!"
La neve mi sferzava la pelle e le forze incominciavano a mancarmi. Volevo urlare, volevo lasciarmi cadere all'indietro: farmi abbracciare dall'aria rarefatta della montagna e lasciarmi frantumare le ossa dalle rocce.
Quale era il senso di tutto quel dolore?

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Luce
RomanceLa guerra è scoppiata ancora, il mondo è devastato dall'odio e dalla violenza. Un ragazzo, dalla carnagione pallida e gli occhi di uno strano colore turchese, si ritrova scaraventato in un mondo a lui sconosciuto: il mondo dell 'esercito. Senza memo...