"Ehi…"
Mi svegliò la mattina un sussurro, una voce grave che invase il mio sonno senza sogni.
"Svegliati, principessa" il ragazzo biondo che la sera prima mi aveva dato il benvenuto. Mi voltai di scatto, incontrando il suo volto squadrato. Notai sulla divisa militare una targhetta con il suo nome:Christoffer Jansen
Mi chiedevo da dove venisse. Sapere come si chiamasse lo rendeva più umano e meno inquietante.
“Devi alzarti” il suo tono era quasi gentile.Erano tutti già pronti con le loro divise in procinto di lasciare la stanza. Mi scaraventai giù dal letto, indossando di fretta e furia il giaccone della divisa e li rincorsi fuori dalla stanza. Mi avvicinai a Chris – come avevo deciso di chiamarlo – e gli sussurrai un lieve “grazie”. Lui si voltò appena, lanciandomi uno sguardo da far venire i brividi; mi morsi la lingua. Mi feci da parte e li seguì come un cane bastonato, aumentando la distanza tra me e il ragazzo dagli occhi di ghiaccio.
Li seguii sino alla mensa per fare colazione. Quando entrai sentì una costellazione di sguardi addosso, incuriositi, divertiti, confusi. Erano tutti soldati, dal fisico da lottatori di wrestling, non capivo cosa ci facessi io in mezzo a loro.
Ritirai quello che definivano colazione; una zuppetta viscida che doveva essere porridge, una mela e uno yogurt acido quanto un’anziana con l’artrosi. Mi misi seduto, rigorosamente in disparte, nel primo tavolo vuoto che trovai. Cercai di mangiare quella pappetta vischiosa ma mi arresi dopo qualche cucchiaiata. Morsi la mela e alzai la testa; mi guardai intorno. Tutti mangiavano con avidità e parlavano tranquilli. Incontrai gli occhi di Chris per sbaglio. Mi voltai all’istante, preoccupato pensasse lo stessi fissando e guardai fuori dalle finestre opache alla mia sinistra. Fuori aveva smesso di nevicare ma il cielo era plumbeo come una sera di novembre. Uno spiffero di aria gelida mi solleticò il collo; una finestra poco lontana dal mio tavolo era difettosa, una fascetta da elettricista ne decorava la maniglia per dare l'impressione che fosse chiusa. Le sbarre di ghisa che tappezzavano tutto l’edificio, lì, erano allentate e creavano un varco abbastanza largo da passarci dentro.
Mentre venivo cullato dal sussurro fresco della libertà, una campanella risuonò forte all’interno della mensa. Molti soldati si alzarono e tra loro anche i miei compagni di stanza, mescolandosi e confondendosi come biche di formiche che si muovevano alla rinfusa nella mensa. Presi il mio vassoio, con metà colazione ancora intatta, e dopo averlo svuotato, ripresi a seguirli, sperando di capire cosa avrei dovuto fare in quel posto.
Ci dirigemmo fuori, iniziò un allenamento sfiancante, ci fecero correre, saltare, fare flessioni e correre ancora. Io durai 10 minuti; il mio corpo non poteva reggere un allenamento del genere. Non lo avevo mai fatto.
Feci quel che potei; corsi sino a perdere un polmone, saltai finché riuscii a sentirmi le gambe e mi arrampicai fin quando le mie mani iniziarono a sanguinare.
Si fece l’ora di pranzo e si ripresentò la stessa situazione della colazione.
Solo, in disparte, mangiavo quel che doveva essere della carne poco cotta in un sughetto poco invitante. Non mi chiesi cosa fosse in realtà; avevo troppa fame.Fuori aveva appena cominciato a piovere.
L’allenamento riprese ancora, questa volta lontano dalla caserma, nel bosco. Il mio corpo tremava ad ogni passo che facevo, ero sempre l’ultimo, nessuno faceva più molto caso a me. Doveva essere una specie di esercitazione, una scarpinata in montagna, un allenamento di resistenza.
Mi fermai a metà pomeriggio. Caddi con la faccia sul sottobosco congelato che odorava di funghi, pioggia e terriccio bagnato e rimasi immobile per una ventina di minuti.
Nessuno mi venne a cercare.
Non capivo assolutamente nulla di quello che capitava intorno a me.Venne sera, quel giorno. Saltai la cena, ero troppo stanco per gestire quegli sguardi. Cercai una doccia e mi buttai sotto il getto caldo. Il mio corpo era indolenzito e congelato. Non sentivo niente.
Pochi minuti dopo sentii arrivare altre persone, altri soldati. Con i loro corpi maestosi scolpiti in una lega di ferro e testosterone, invasero le docce, fissandomi. Alcune parole mi arrivarono alle orecchie:
“Ma chi cazzo è?”
“Che ci fa qui?”
“Frocio”Mi sentivo come un animale allo zoo; schernito, deriso, come un insignificante insetto sotto un’enorme lente di ingrandimento.
Coprii il mio umile corpo che in confronto al loro sembrava quello di un bambino rachitico e feci per andarmene. Mi bloccarono, mi dissero qualche parola che odorava di insulto e mi diedero qualche spintone.
“Mi sa che hai sbagliato posto tesoro, i dormitori delle donne sono dall’altra parte” fece uno di loro dandomi una spallata.
Iniziai a spaventarmi, non capivo perché se la prendessero con me.
“Frocio” rimbombò forte nella mia testa. Una fitta alla fronte mi fece mancare il respiro, caddi a terra, sul bagnato. Mi paralizzai ancora, terrorizzato.
“Ci vuoi vedere il cazzo, vero?”
“Non riesce a stare neanche in piedi, sta checca”
“Checca” fece eco nella mia testa.Improvvisamente si fece tutto chiaro. Ricordavo il significato di quelle parole, ero certo che me le avessero già rivolte in passato. Mi chiedevo perché delle persone che non sapevano nulla di me dedicassero anche solo un secondo della loro vita nel giudicarmi e nell'accumulare odio verso qualcosa di cui non ero neanche conscio. Mi stavo solo facendo una doccia - con lo sguardo basso - ma i miei atteggiamenti o forse semplicemente il mio modo di respirare o il mio modo di muovere le mani, le braccia, il corpo, arrecavano loro disagio, fastidio. Allora sentivano il bisogno di offendere, insultare e deridere quel mio corpo vuoto, quella mia mente frastornata, svuotata e distrutta. Mi chiedevo cosa avessi fatto di male, cosa avessi sbagliato, cosa ci fosse di sbagliato in quell’esistere e fare cose comuni come lavarsi.
Mentre nella mia testa continuavano a palesarsi queste e mille altre domande, quei volti imbruttiti dall'odio e dall’ignoranza continuavano a studiarmi e a giudicarmi per i miei modi effemminati. Rimasi a bocca aperta con gli occhi aridi come un una notte di metà agosto. Voltai appena la testa alla mia destra e scontrai lo sguardo di Chris. Appena i nostri sguardi si incontrarono, si voltò e continuò ad insaponarsi.
Scappai. Corsi via da quel bosco di insulti, da quell’oscurità di giudizi. Mi persi nei corridoi bui di quella caserma e mi chiusi in stanza.
Mentre quelle parole e quegli sguardi mi turbinavano nella testa senza darmi tregua, nascosto sotto un ruvido lenzuolo che non poteva salvarmi dal mondo esterno, mi abbracciai le ginocchia e rimasi in posizione fetale.
Non sapevo niente di me, eppure, in poco meno di un attimo, quelle persone erano riuscite a farsi sentire sbagliato, diverso, inferiore, di seconda classe. Non capivo da dove venisse tutto quel dolore ma ero certo che fosse una ferita aperta, sulla quale la vita continuava a gettare sale e limone. Allora io, ignaro di averle quelle ferite, tentavo in vano di disinfettarle con un tovagliolino imbevuto solo di saliva.Cercai di capire, mi tormentai fino a farmi venire il mal di testa ma in poco meno di dieci minuti, con gli occhi gonfi di lacrime silenziose e sorde, mi addormentai, con tutte quelle domande inevase.
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Luce
RomanceLa guerra è scoppiata ancora, il mondo è devastato dall'odio e dalla violenza. Un ragazzo, dalla carnagione pallida e gli occhi di uno strano colore turchese, si ritrova scaraventato in un mondo a lui sconosciuto: il mondo dell 'esercito. Senza memo...