XVIII - Oboe di metallo

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Tornammo in caserma il giorno dopo.
I miei compagni fecero poche domande. Io, ne avevo fin troppe.
Nella mia testa suonava lo straziante suono di un oboe di metallo e gli occhi mi si chiudevano da soli.
Andrew non disse più una parola durante il tragitto, tornò serio e composto come sempre, si vergognò di guardarmi negli occhi.

Mi accompagnò fino in stanza e mi guardò di sottecchi;
“Tutto bene… Luce?” chiese.
Sorrisi tiepidamente, non sapevo cosa rispondere.
“Sono stanco. Tra poco inizia l’allenamento.”

Gli voltai le spalle e me ne andai come chi prova l’imbarazzo di una prima volta.
Lo sentì sospirare mentre si smarriva nei corridoi.

Non avevo voglia di pensare a nulla, non volevo pensare a quegli arnesi nucleari o alla sua protesti accoltellata, o alla terrore più incondizionato che avevo visto nei suoi occhi.
Volevo solo riposare un po’. Solo qualche minuto, giusto per permettere al sonno di portarsi via tutta la sofferenza e la follia di quella notte.

Mi svegliai a mezzo giorno. Imprecai, mi fiondai fuori. I ragazzi non si stavano allenando, non c’era nessun’esercitazione, nessun allenamento. Mi guardai intorno, c’era un lieve brusio generale, come se ci fosse un enorme alveare dietro l’angolo, e l’aria era talmente densa e pesante che non si riusciva a respirare.

Il cielo era sereno, senza mezza nuvola, quasi come non ci fosse nessun problema all’orizzonte.

Chris mi corse incontro sbracciando.
“Cazzo fai?” disse stretto tra i denti. Mi prese per una mano e mi strattonò verso la caserma.
“Che succede!?” tentai di lamentarmi.
Mi scaraventò su un muro e mi strizzò le spalle, si guardò intorno e sussurrando disse:
“E’ iniziata.”
Volli morire in quel momento.

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