Trascorsero due settimane da quanto successo a casa di Akira, due settimane in cui lei si rinchiuse in casa di Max, senza la minima intenzione di voler uscire. Non disse loro la verità, non le avrebbero mai creduto. Raccontò solo che i suoi genitori erano arrabbiati con lei per qualche motivo non ben specificato, e che lei non voleva tornare a casa per un po' di giorni. Max non sembrò dispiaciuto dal fatto che Akira trascorresse il tempo a casa sua. In quel modo avrebbe potuto stare con lei per la maggior parte del tempo possibile, nonostante non avessero più accennato a quel bacio, e non ce ne furono altri.
«La famiglia non è sempre il sangue» considerò Max una sera, mentre entrambi erano stesi a letto, lui nel suo e lei in una brandina di fianco che le era stata preparata, e parlavano del più e del meno cercando di annoiarsi a vicenda al punto da farsi venire sonno. «Sono le persone nella tua vita che ti vogliono nella loro, quelli che ti accettano per chi sei. Quelli che farebbero qualsiasi cosa per vedere il tuo sorriso e ti amano nonostante tutto». Si girò verso di lei, e si perse nel guardarla. Era rannicchiata su un fianco, il braccio posizionato sotto il cuscino per sostenere la testa. Indossava una sua vecchia maglietta del campeggio, verde muschio, larga, che le nascondeva perfettamente le sue forme minute. In quel periodo si vestiva con delle combinazioni di abiti suoi e di sua sorella, e lui ancora non capiva come riuscisse ad essere bella anche con dei jeans a fiori e una felpa con dei teschi.
«Non fare il filosofo di turno» mormorò lei, alzando gli occhi per guardarlo. «Lo so bene perché lo dici».
«Be', lo ammetto» si arrese lui, sbuffando e mettendosi seduto. «Nonostante ti reputi ancora una ragazzina noiosa e petulante, potrei, forse, in qualche modo, essere...contento di averti qui».
«Godi delle disgrazie altrui, Hunt?»
«Se beneficiano il mio tornaconto si, direi che può essere una descrizione accurata»
«Stai zitto e dormi» mormorò lei, chiudendo gli occhi e abbandonandosi al sonno, col fantasma di un sorriso sul volto.
.......
Akira lo sapeva che non avrebbe potuto indossare i vestiti di Max e sua sorella ancora per molto tempo. I vestiti stretti di lei le stavano dando di volta il cervello, mentre in ogni felpa di Max ci sentiva il suo profumo, che stava tentando disperatamente di dimenticare il più in fretta possibile. Inevitabilmente, sarebbe dovuta tornare a casa.
Allo stesso modo però non avrebbe sopportato ancora una volta lo sguardo vacuo della madre su di lei, le sue grida e la negazione di avere una figlia.
Per questo motivo aveva intenzione di entrare in camera sua dalla magnolia del suo giardino, in un momento in cui in casa c'erano solo Seiji e sua nonna, che non avrebbero potuto farle del male anche se avessero voluto.
Si appostò dietro l'angolo, un anonimo giovedì pomeriggio, aspettando che la madre uscisse di casa per andare a fare la spesa. Una mezz'oretta dopo la vide uscire, vestita con una gonna marroncina e un giubbotto nero. Evidentemente aveva dimenticato l'esistenza di sua figlia, ma non la sua routine abituale. Girò sulla sinistra, e si allontanò per andare a prendere la metro, avrebbe potuto fare la strada a piedi, il negozio di alimentari non era poi così distante, ma Maryse aveva sempre evitato ogni inutile fatica. Akira capiva solo in quel momento da chi avesse preso la sua pigrizia.
Akira si avvicinò furtiva a casa sua, con la schiena bassa e costeggiando il muro, senza rendersi conto che probabilmente in quel modo dava ancora più nell'occhio del solito. Dopotutto, stava entrando in casa sua, e le persone del suo quartiere l'avevano già vista molte volte salire attraverso la magnolia. Non c'era assolutamente niente di speciale. Non stava veramente commettendo un'infrazione.
Ruzzolò in camera sua in malo modo, imprecando lievemente tra sé. Sperava soltanto che non l'avesse sentita nessuno. La camera era in disordine, ma non molto diversa da come l'aveva lasciata due settimane prima, quando stava scappando per salvarsi la vita, o forse per complicarsela. Il mobile che aveva spinto verso la porta, lo stesso che conteneva buona parte dei suoi vestiti, era riverso a terra, i cassetti rovesciati. Il resto dei mobili, tra cui la libreria e l'armadio, erano intoccati, ricoperti da uno strato leggero di polvere che si stava attaccando un po' dappertutto, come testimonianza che in quella stanza non ci era entrato più nessuno da un bel pezzo, come se fosse stata dimenticata dagli abitanti della casa.
Prese il primo zainetto che trovò disponibile, bucherellato, con la tela sgualcita, probabilmente di proprietà del padre prima di diventare suo, e ci buttò dentro quanti più vestiti possibili, senza dare peso a quello che stava prendendo. Era intenzionata a fare il più velocemente possibile e uscire di lì prima che qualcuno si accorgesse di lei. Se avesse visto sua nonna o, Dio non voglia, Seiji, non sarebbe stata capace di trattenere le lacrime, e sarebbe stata ancora più nei casini di prima. Era proprio vero che si capiva il valore di certe cose solo dopo averle perse.
Si spostò verso il comodino, alla ricerca della collana dal ciondolo a forma di clessidra che Max le aveva regalato a Natale. Il giorno del suo compleanno non l'aveva indossata, perché presa dalla fretta e dall'ansia del suo compleanno, dopo la doccia si era dimenticata di rimettersela addosso. Era diventata un peso confortante che pressava proprio tra le ossa sporgenti delle clavicole. Il freddo dell'acciaio di cui la clessidra era fatta era una sensazione rassicurante della quale si era trovata a sentire la mancanza in quei giorni tristi.
«Chi sei?»
Akira si girò di scatto, cadendo di colpo sul letto a causa del suo pessimo equilibrio. Davanti alla porta, aperta solo in un piccolo spiraglio, c'era Seiji.
Tutti avevano sempre affermato come Akira e Seiji si assomigliassero, fin da quando erano veramente piccoli. Stessi capelli neri come la pece, stessi occhi allungati protetti da ciglia scure e pronunciate. L'unica cosa differente erano gli occhi, marroni quelli di lei, chiari e luminosi quelli di Seiji. Gli occhi di suo padre. Avevano la stessa corporatura esile e allungata, con gambe secche e ginocchia nodose, nonostante fosse chiaro che Seiji sarebbe diventato molto più alto di sua sorella.
Erano passate appena due settimane, ma secondo Akira, Seiji era cresciuto di almeno una spanna, e sembrava più grande, sembrava avere più di dieci anni di età. Sembrava avere sulle spalle più responsabilità di quante non ne avesse mai avute.
«Perché sei in casa mia?». La voce era ancora quella di un bambino, forse un bambino un po' piagnucolone, un po' spaventato, ma non terrorizzato. Un bambino che rivendicava il proprio posto nel mondo.
«Seiji...», Akira si alzò piano, allungando una mano aperta verso di lui per non spaventarlo, come si fa con un cane randagio, «Seiji sono io, sono Akira».
Sapeva che c'era una possibilità, lo vedeva nei suoi occhi, lo vedeva nel suo viso. L'espressione era contratta, come se stesse guardando una persona che sapeva di aver già visto da qualche parte, ma senza ricordarsi dove.
«Io non...»
«Andrà tutto bene» lo interruppe Akira, con la voce più bassa e rassicurante che le sue corde vocali fossero in grado di produrre. «Capiremo cos'è successo, sistemeremo tutto».
Seiji si avvicinò sospettoso, guardandosi intorno. Era come se vedesse per la prima volta quella stanza, come se prima di allora non fosse mai esistita.
«Mamma mi ha detto di non parlare con gli sconosciuti...»
Akira soffocò un singhiozzo, e dovette concentrarsi davvero tanto su qualcos'altro, in quel caso una macchia nel muro, per evitare che le lacrime le scivolassero giù per le guance. Sapeva che se avesse iniziato a piangere non sarebbe più riuscita a fermarsi, e non avrebbe fatto altro che spaventarlo, e farlo scappare.
«La mamma ha ragione» sussurrò Akira, «ma io non sono una sconosciuta Seiji, sono tua sorella. Devi ricordare».
Devi ricordare, perché non posso sopportare di perdere anche mio fratello.
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Lᴀ Rᴀɢᴀᴢᴢᴀ ᴄʜᴇ Cʀᴇᴀᴠᴀ Fᴜᴏᴄʜɪ ᴅ'Aʀᴛɪғɪᴄɪᴏ ||Fʀᴇᴅ Wᴇᴀꜱʟᴇʏ
Fanfictionnoι тυттι ѕιaмo coмe ι ғυocнι d'arтιғιcιo: cι ιnnalzιaмo, вrιllιaмo, cι dιѕѕolvιaмo e alla ғιne cι dιѕperdιaмo. Ad Akira piacevano poche cose precise nella vita, le ciambelle col buco, i libri con un finale inaspettato, i giorni di pioggia e il pro...