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L'ingresso era gelido, silenzioso. Una barella era stata buttata a metà strada tra l'ingresso e la scala verso la cantina. In bilico tra la salvezza e la caduta negli Inferi. Akira si trovò a simpatizzare con quello che stava probabilmente provando la barella.

Ma che fosse lì voleva dire che non ce n'era stato bisogno. Forse non era niente di grave, o forse era qualcosa di troppo grave.

Salì i gradini delle scale a due a due guardandosi attorno. Era tutto troppo silenzioso, tutto troppo familiare...

La porta di casa era socchiusa, e dallo spazio tra essa e lo stipite usciva una striscia di luce gialla che illuminava il corridoio. Akira sentiva il borbottio delle voci, ma tra la distanza e l'agitazione, non riusciva ad afferrare pienamente le parole. Sembravano diverse voci, almeno una mezza dozzina, tra cui riconobbe la tonalità bassa e la cadenza lenta del padre.

Appoggiò la mano sulla maniglia. Era calda, e sporca da ditate e impronte digitali. Spinse la porta, che si aprì in un cigolio rumoroso. Dall'interno, le voci si zittirono. Ci fu un ciabattare concitato, e la porta si aprì ancora di più senza il volere della ragazza, rivelando sua madre dall'altra parte dell'ingresso. La prima cosa che Akira notò fu che non c'era il solito odore di minestrone che caratterizzava la sua casa e che la sapeva tranquillizzare. Il viso di sua madre era scavato dalle rughe, ma ancora più magro del solito. Sembrava ancora più malata.

«Dove eri!?» la aggredì non appena Akira riuscì a mettere un piede in casa.

Si guardò intorno, notando per la prima volta che l'appartamento era stato messo a soqquadro. Tutti i mobili erano rivolti a terra, tutti gli oggetti che contenevano sparsi per il pavimento, calpestati e rotti. Akira si abbassò meccanicamente, e prese in mano una cornice contenente una delle poche foto di famiglia che avevano in casa. Akira teneva in braccio Seiji, solo un batuffolo di coperte, con una faccia tutt'altro che felice. Reece rideva, mentre la madre guardava la figlia con apprensione. Il vetro era rotto in diverse parti, e rendeva quella foto un puzzle che sembrava non completato nel modo giusto.

«Abbiamo provato a chiamare al negozio, ma Max ci ha detto che eri già uscita» continuò il padre, che le aveva raggiunte con due falcate.

«Ora sono qua» tagliò corto Akira, appoggiando la foto su un mobiletto basso. «Mi dite cos'è successo?».

«Dov'eri?»

«Eri ancora con quel ragazzo vero?»

«Non ve ne è mai fregato niente di me, non vedo perché dovreste incominciare adesso».

Akira buttò fuori le parole con più veleno di quanto volesse. Ma il fatto di non sapere cosa stesse succedendo non migliorava il rapporto già conflittuale che aveva con i suoi genitori.

Si girò sui tacchi ed entro in salotto, dove tre volontari della London Ambulance Service gravitavano intorno alla nonna, seduta sul divano. Erano tre uomini non più giovanissimi, che non sembravano essere esattamente a proprio agio. Due continuavano a guardarsi in giro, e indicavano cose comuni come la televisione o la radio, per poi ridacchiare tra di loro. Il terzo era seduto di fianco alla nonna di Akira che, pallida e imperlata di sudore, e si faceva docilmente esaminare l'avambraccio. Akira corse da lei, e le si inginocchiò di fianco. Scorse dei lunghi e netti tagli sulla pelle rugosa della nonna, come se fatti da dei coltelli, o addirittura qualcosa di ancora più affilato. Visti tutti insieme, componevano una parola.

«Babbana» sussurrò, alzando poi gli occhi sulla nonna. «Che cosa vuol dire? Nonna, che cosa è successo?».

«Va tutto bene bambina, non ti preoccupare...»

«Non va bene!» scattò Akira, alzandosi in piedi e lanciando uno sguardo ai suoi genitori, che la guardavano dall'ingresso del salotto. «Qualcuno vuole dirmi cosa mi sono persa?»

«Sono entrate due persone» rispose la nonna stancamente, con voce lieve. «Non mi ricordo bene...non...»

«Loro ti hanno fatto questo?» chiese Akira con un tono di voce più dolce, sedendosi sul bracciolo del divano di fianco a lei. «Queste persone ti hanno fatto questo? Perchè non avete chiamato la polizia? Si può fare un identikit e...»

La nonna scosse la testa, interrompendola. Lo sguardo era perso nel vuoto, il viso contratto per lo sforzo di ricordare.

«Avevano una maschera. Era di ferro, spaventosa»

«Ci sono tanti ladri al giorno d'oggi...» iniziò il padre di Akira, cercando di rassicurarla. «Ma sono sicuro che riusciremo...»

«Tenevano in mano una cosa» continuò la nonna, come se non lo avesse sentito. «Un oggetto strano, inusuale. Era un bastoncino di legno, un rametto. Poi ho visto solo luce».

Ad Akira mancò un battito, ripercorse con la mente quello che era accaduto solo poche ore prima. Sentiva di nuovo il vento sulla pelle, nelle orecchie il rumore di Camden Town, nel naso l'odore di fish and ships, davanti agli occhi un ragazzo dai capelli rossi smossi dal vento. Akira aveva gli occhi offuscati dalle lacrime, ma si ricordava molto bene come Fred aveva tirato fuori un oggetto strano, inusuale, dalla tasca interna del giubbotto. Un bastoncino di legno.

No, non era possibile.

Fred non avrebbe potuto fare del male a sua nonna. Tra l'altro, Fred era stato tutto il tempo al negozio. O forse era riuscito a tornare a casa sua prima di lei?

Forse era andata a cercarla, ma non trovandola aveva deciso di rifarsi sulla nonna. E poi lui e chi, George? No, non lo credeva possibile. Non il Fred che si era lasciato trascinare alla National Gallery, anche se forse era rimasto deluso dalla conclusione della giornata. Non il Fred che l'aveva chiamata Arianna, prendendo un posto nel suo cuore.

Akira notò un movimento inusuale da parte di uno dei due volontari che stavano vagando in giro per la casa. Si trovava dall'altra parte della stanza rispetto ad Akira, e bloccava l'uscita. Si stava infilando la mano nella giacca, tastando qualcosa come per assicurarsi di averla. Poi fece contatto col suo sguardo, e sorrise appena. Akira non ci pensò due volte.

Scappò.

Avrebbe dovuto rimanere, avrebbe dovuto proteggere la sua famiglia, sua nonna, suo fratello che dormicchiava indifeso su una poltrona del divano. Avrebbe dovuto rimanere perché solo lei aveva capito cosa stesse succedendo.

Ma Akira non era mai stata una persona coraggiosa.

A scuola non si era mai posta dalla parte del debole, non era mai stata la paladina degli oppressi. Non prendeva neanche parte alle assemblee di classe perché finivano sempre a male parole. La guerra non faceva per lei. Eppure ci era finita in mezzo.

Salì le scale velocemente, a due a due. Qualcuno la stava seguendo, si sentivano dai passi pesanti. Ma Akira era più agile, e conosceva la casa. Sentì l'uomo urlare "Pietrificus", e qualcosa le sfiorò i capelli per poi schiantarsi contro un quadro, che rovinò a terra ostruendo il passaggio dietro di lei. Si rintanò in camera sua, chiudendo la porta a chiave e sbarrandola con un mobile. Aveva il fiatone, il cuore le rimbombava nel petto. Da sotto sentiva provenire delle urla femminili. Probabilmente era sua madre.

Sentì due voci che urlarono "Oblivion", poi il silenzio. Akira soffocò un singhiozzo, e sobbalzò quando si sentì uno schianto sulla porta della sua camera. Il mobile tremolò, e si spostò appena. Non c'erano altre possibilità. Aprì la finestra, e saltò.

Lᴀ Rᴀɢᴀᴢᴢᴀ ᴄʜᴇ Cʀᴇᴀᴠᴀ Fᴜᴏᴄʜɪ ᴅ'Aʀᴛɪғɪᴄɪᴏ ||Fʀᴇᴅ WᴇᴀꜱʟᴇʏDove le storie prendono vita. Scoprilo ora