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Akira non fece in tempo a protrarsi in avanti per prenderlo, che quello si infranse sul tavolo andando in mille pezzi. L'unica cosa che riusciva a pensare era: "No, non ancora".

Di fianco a lei, Seiji stava seduto rigido come un blocco di marmo, e aveva il fiatone come se avesse corso la maratona. La fronte e i capelli erano imperlati di sudore, e il visino di solito rilassato e sorridente era rosso e contratto in una smorfia di terrore.

«Vieni con me» mormorò Akira, prendendo dal braccio e tirandolo in camera sua prima che la madre o la nonna potessero dire qualcosa.

«Non sono stato io!» esclamò Seiji, scoppiando a piangere e tremando tutto, «non è colpa mia!!»

«Lo so, patata lessa» lo rassicurò lei, prendendolo in braccio e sedendosi sul suo piccolo lettino da bambino, coperto con un piumone dei supereroi. «Lo so che non sei stato tu». La stanza era illuminata solo dalla luce della luna che compariva a tratti dalle nuvole, dimostrando la sua presenza in ogni istante, anche quando era giorno, anche quando veniva coperta dalle nuvole. Akira stava guardando i giochi sparsi per terra di Seiji, una macchinina, dei blocchi da costruzione e qualche disegno mezzo colorato, quando tra le braccia lo sentì trattenere il respiro. Abbassò lo sguardo. Seiji stava diventando ancora più rosso dal tanto che cercava di trattenere le lacrime. «Sai, Seiji» sussurrò lei, accarezzandogli le guance lisce e bagnate. «Piangere non significa che tu sia debole». Il bambino alzò gli occhi verso di lei, attratto.

«No?»

«No. Da quando nasci, piangere è sempre stato un segno del fatto che sei vivo».

Lo tenne tra le braccia e aspettò che si calmasse, accarezzandogli piano piano i capelli e cantando una stupida canzoncina che la nonna ripeteva sempre.

«Viaggio all'andata, viaggio al ritorno,
Giorno di notte, notte di giorno,
Il tempo gira all'incontrario
Non c'è più sonno, non c'è più orario
Non c'è più sonno, non c'è più fame
Casa è lontana, senti il legame
Il mondo è grande, ma non sei solo
Anche il coraggio ti segue in volo
Bello partire, bello arrivare
Ma soprattutto, bello viaggiare».

Lo fece sdraiare abbracciato ad un trattore fatto con i cubetti lego, e uscì dalla camera per tornare nella propria. Con il padre di Akira e Seiji era spesso assente per lavoro, e il bambino si era assunto sulle sue spalle il compito di fare l'uomo di casa. Dimendicandosi di avere solo dieci anni.

«Non so più cosa fare...». Akira si fermò di colpo sul pianerottolo delle scale, sentendo la voce della madre che arrivava un po' ovattata dalla porta chiusa della cucina. Si acquattò sul primo gradino come un gatto in ascolto.

«Non credo che le visite psichiatriche funzionino con questa...diavoleria» rispose una voce che sembrava quella della nonna, ma più dura e stanca del solito. Poi ci fu un rumore di cocci di vetro, segno che una delle due stava buttando il bicchiere andato in pezzi.

«E' già la sesta volta, non riconosco più il mio bambino. Non capisco cosa gli stia succedendo» concluse la madre con una nota triste nella voce. Akira si alzò e scivolò in camera sua prima che la porta della cucina si aprisse del tutto.

La familiarità della sua stanza calmò un pochino Akira. Nell'aria c'era ancora il sentore di una ormai consumata candela ai frutti di bosco. La camera era piccola, disordinata e accogliente. Il regno di una persona che aveva mille hobby ma ai quali non si impegnava in nessuno veramente. Per questo, in senso orario, addossati ad ogni parete c'erano oggetti quali una chitarra impolverata, una tastiera, un cavalletto da artista, una libreria molto ben fornita, l'unica che sembrava utilizzata, e un tappetino da yoga. La ragazza spostò con un calcio uno scatolone pieno di terra e vetro, resti di una teca per formiche, e si guadagnò la via per arrivare al letto sfatto e con una montagna di vestiti ai suoi piedi.

Ci si lasciò cadere sopra sospirando. Il fatto era che neanche lei riconosceva più il suo fratellino. Era sempre stato un bambino diverso dagli altri, ma in un senso buono, o comunque che piaceva ad Akira. Faceva fatica a fare amicizia con gli altri bambini, e si fidava davvero di poche persone. Preferiva stare da solo a leggere o disegnare piuttosto che giocare a giochi di società. Ma era un bambino solare, gioioso e che amava la vita. Solo negli ultimi anni era diventato più nervoso, sempre sul "chi va là", sempre teso come una corda di violino pronta a saltare.

E poi c'erano quelle cose, quegli avvenimenti misteriosi dei quali a volte Akira era spettatrice. Come il bicchiere. Come ben aveva detto la madre, quella era la sesta volta che qualcosa si rompeva in casa senza che nessuno la toccasse. Oppure il fatto che Seiji certe volte si trovasse sul tetto di casa senza sapere come ci fosse finito. Erano cose a cui Akira cercava di non pensare, ma che facevano preoccupare fino alla morte i loro genitori. Sedute di ipnosi, dallo psicologo, dallo psichiatria. Niente funzionava. Erano convinti che Seiji nascondesse un segreto che non voleva rivelare neanche sotto tortura. Ma Akira sapeva che non era la verità. Un bambino come Seiji non sapeva nascondere i segreti. Non sapeva neanche rubare un pezzo di cioccolato dalla dispensa in cucina, benchè sua sorella avesse speso ore ad insegnargli la tecnica giusta. No, quello che succedeva era tanto oscuro a lui quanto a tutti gli altri.

Akira allungò un braccio verso la borsa abbandonata di fianco al letto, e chiuse la mano intorno al particolare fuoco d'artificio che gli avevano dato in dono quei due strani ragazzi. Se lo portò all'altezza degli occhi e lo rigirò dalle mani. La stanza era buia, ma le lettere W e W brillavano lo stesso nella luce della luna. Anzi, brillavano un po' troppo. La ragazza si perse a guardare dentro quel caleidoscopio di colori, non capendo quale meccanismo potesse essere stato usato per dare loro quella luminosità.

Distolse lo sguardo solo quando sentì dei singhiozzi provenire dalla stanza di fianco alla sua. Con quelle pareti di cartapesta si sentiva praticamente tutto quello che succedeva nel resto della casa. Akira si alzò sospirando, e decise di andare ancora una volta nella camera del fratello, magari avrebbe potuto distrarlo facendogli vedere quel strano fuoco d'artificio e raccontandogli quello che le era successo in giornata.

Seiji era rannicchiato sul letto, e stava singhiozzando contro il suo cuscino dalla federa azzurra, e tremava come un piccolo coniglio spaventato. Akira si sedette di fianco a lui, e lui subito si accoccolò sulle sue gambe magre, desideroso di affetto.

«Guarda, ti ho portato una cosa che potrebbe piacerti» sussurrò lei, dandogli in mano il piccolo cilindro scintillante. Il bambino se lo girò tra le mani con occhi intelligenti, che brillavano al chiarore di quello strano oggetto.

«E' caldo...» mormorò, avvicinandolo al viso. Poi lo lanciò di colpo verso il pavimento, con un gridolino di dolore. «Scotta!».

«Ma cosa...» mormorò Akira, allungando un braccio per prenderlo. «Che stai dicendo? L'ho tenuto in mano fino a pochi secondi fa». 

Fu in quel momento che si avvertì lo scoppio. 

Lᴀ Rᴀɢᴀᴢᴢᴀ ᴄʜᴇ Cʀᴇᴀᴠᴀ Fᴜᴏᴄʜɪ ᴅ'Aʀᴛɪғɪᴄɪᴏ ||Fʀᴇᴅ WᴇᴀꜱʟᴇʏDove le storie prendono vita. Scoprilo ora