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«Chi è il ragazzo che ti piace?»

La domanda la tormentò per più di un paio di settimane. Il fatto era che Katie l'aveva confusa. La sua domanda non presupponeva la possibilità che Akira non fosse innamorata di qualcuno. No, il ragazzo c'era, ma forse lei non lo sapeva ancora.

Il problema vero era che, forse, lei non sapeva cosa voleva dire amare. L'unica persona che lei si sentiva di "amare" era suo fratello, ma si sa che l'amore tra fratelli non c'entra niente con l'amore che provi per quella persona, l'unica e sola, che vorresti avere con te per il resto della tua vita.

Sdraiata sul letto di camera sua si chiedeva che cosa avesse fatto di male lei per essere privata della gioia dell'amore. Quella gioia che aveva fatto brillare gli occhi a Katie mentre parlava di Oliver, quella gioia che provava ogni giorno chi tornava a casa e aveva la fortuna di abbracciare l'amore della sua vita. O i ragazzi che Akira vedeva ogni tanto passeggiare per Hyde Park tenendosi mano nella mano e guardandosi come se non esistesse nessun altro al mondo.

Forse lei non sapeva cos'era l'amore, ma anche se lo avesse saputo sarebbe fuggita dai cuoricini, dai nomignoli, dall'intimità, come nel Decameron quei dieci ragazzi erano sfuggiti dalla peste. O forse si stava nascondendo adesso perché sapeva di non meritarselo.

Si alzò di scatto, decisa ad andare a parlarne con una persona che aveva sicuramente conosciuto l'amore.

La camera della nonna era poco più che una camera per gli ospiti, e in passato era stata adibita a lavanderia e magazzino. Era stata modificata così tante volte che sul pavimento di parquet si vedevano i graffi di tutti i mobili spostati, ognuno che raccontava la storia di quella camera e di quella casa. La nonna era andata ad abitare in casa con loro solo un paio di anni prima, quando le scale del condominio in cui viveva erano diventate troppo insidiose, e avevano deciso che sarebbe stato divertente far cadere la signora più anziana dell'edificio un paio di volte.

Akira bussò alla porta chiusa, attendendo diligentemente il consenso ad entrare in camera. Pochi secondi dopo la voce lieve e leggera della nonna pronunciò un "avanti" che aveva il sapore della voglia di compagnia.

Il locale era illuminato dalla luce rossastra del tramonto e da una più bianca e asettica lampadina che ciondolava spoglia dal soffitto. Tutto intorno i mobili erano pochi ed essenziali. Oltre al letto si innalzava un grande armadio di legno a due ante, eredità di famiglia, un comodino e una sedia bassa con appoggiata una vestaglia immacolata di seta. Akira ebbe l'istinto di andare ad accarezzare il tessuto liscio, ma si fermò, ricordandosi che a sua nonna non faceva particolarmente piacere quando la gente si prendeva la libertà di toccare i suoi oggetti, perché spostando le cose nella sua stanza, le smuovevano anche il suo ordine mentale. Quella caratteristica era stata ereditata da Akira, che si infastidiva non poco quando la gente, ovvero i suoi genitori o suo fratello, toccavano cose che appartenevano esclusivamente a lei. Che li avesse lasciati in giro, quelle poche volte in cui lo faceva, voleva solo dire che quegli oggetti le servivano in quel momento in quel posto, perché nella sua testa lì erano belli, lì erano ordinati, lì avevano il loro perché. Allo stesso modo in cui i suoi pensieri sparsi per la testa avevano un senso, anche i suoi oggetti avevano uno scopo preciso nel posto in cui erano.

Sul comodino si trovava l'oggetto di interesse di Akira, il motivo per cui era andata a cercare la nonna. Dentro una cornice semplice ma dorata, dietro un vetro pulito perché quotidianamente strofinato, sorrideva un uomo in bianco e nero, due occhi allungati che avevano la stessa intensità di quelli di Akira, capelli tagliati molto corti lungo il lato della testa e due fossette che facevano capolino dalle guance. Teneva dietro le spalle un fucile, mentre una spilla attaccata al petto gli conferiva il grado di ufficiale di marina.

«Bambina, volevi chiedermi qualcosa?»

«Sì» rispose Akira, sedendosi di fianco a lei sul letto coperto da un piumone a quadrettoni rossi e gialli, «è una cosa a cui sto pensando da un po'».

«Hai litigato di nuovo con tua madre?»

«No...be' sì» aggiunse, perché in effetti c'era stata una piccola sfuriata qualche ora prima, «ma non è questo che intendevo». La nonna fece un ampio gesto con la mano per incoraggiarla ad andare avanti. Akira posò gli occhi sulla foto del giovane ragazzo che immobile in quell'istante, non sarebbe mai invecchiato. «Quando hai capito di essere innamorata del nonno?».

«Oh...», la nonna allungò la mano per prendere la foto, e accarezzò con un gesto delicato la cornice. «Sai, ogni tanto mi dimentico com'è il suono della sua voce».

Akira si sorprese molto di quella rivelazione. Ma alla fine si mise nei panni di sua nonna. Lei si sarebbe ricordata una voce dopo cinquant'anni di suo silenzio? Deglutì, capendo che non voleva diventare come sua nonna, non voleva doversi affidare al ricordo per avere vicine le persone care. I ricordi rendono tutto talmente difficile...

No, lei non sopportava l'idea che un giorno o l'altro le persone a cui era affezionata se ne sarebbero andate. Per questo forse tendeva a non affezionarsi a nessuno.

«Ma non mi dimenticherò mai quando ho capito di essere innamorata di lui». Akira posò gli occhi sulla nonna, desiderosa di conoscere questo mistero che le faceva perdere le notti. Margaret parlava al quadro più che a lei, immersa nei colori e negli odori di un'Inghilterra degli anni trenta. «Avevi detto che era una sorpresa. Mi avevi portata in un posto speciale. Lavoravi al negozio di mio padre, questo me lo ricordo. "Per guadagnare qualcosa" dicevi sempre, "per mettere su casa, per fare una famiglia". La tua voce si incrinava quando ne parlavi, ma io ti amavo lo stesso. Forse ti amavo anche di più, perché non avevi paura di far vedere il tuo lato debole. E poi mi hai portato in quel prato, c'eravamo solo noi. Sei sparito per un attimo, poi si sono accesi così tanti fuochi d'artificio che hanno illuminato la notte. In tanti pensavano fosse stato un attacco dei tedeschi, ma io e te ridevamo, perché era la prima volta che eri riuscito a creare qualcosa che non si incendiasse. E lì ho capito che ti amavo, perché non potevo più starti lontana». La voce le si incrinò, e quando Akira la guardò di nuovo, fino a quel momento aveva tenuto lo sguardo basso perché si era sentita un'intrusa in quella conversazione ad una direzione sola, vide due calde lacrime solcarle le guance.

Avrebbe voluto abbracciarla, dire una parola di conforto. Fare qualcosa. Avrebbe voluto rassicurarla, essere brava con le parole, essere brava con i gesti. Invece si era bloccata, come al solito. Esprimere le sue emozioni le era sembrato troppo difficile e inadeguato, quindi era corsa via. Dopotutto, che cosa poteva dire lei davanti ad un dolore così grande?

«Akira» la richiamò sua nonna sulla porta della stanza, «per favore, ricordati di parlare alle persone in un modo tale per cui se dovessero morire il giorno dopo, tu saresti soddisfatta dell'ultima cosa che hai detto loro. Fallo per me, ti prego». Akira annuì con la testa, incapace di guardarla, e si allontanò lungo il corridoio.

Tornata nella sua camera, nel suo luogo sicuro, Akira non riuscì ad addormentarsi. Il pensiero volava sempre sulle parole che la nonna aveva pronunciato, alle sensazioni. Se amare voleva dire non riuscire a stare lontana da qualcuno, lei poteva fare un sospiro di sollievo, perché rimanere da sola non le aveva mai dato fastidio, e non aveva mai avuto il desiderio di avere un'altra persona accanto a sé. Sul fatto di parlare bene con le persone, be', ci poteva stare più attenta.

Solo una cosa la turbava. Quei fuochi d'artificio. Se amore voleva dire fuochi d'artificio, allora lei era fregata, perché i fuochi d'artificio circondavano la sua vita.

Lᴀ Rᴀɢᴀᴢᴢᴀ ᴄʜᴇ Cʀᴇᴀᴠᴀ Fᴜᴏᴄʜɪ ᴅ'Aʀᴛɪғɪᴄɪᴏ ||Fʀᴇᴅ WᴇᴀꜱʟᴇʏDove le storie prendono vita. Scoprilo ora