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Scese dalla magnolia nell'esatto istante in cui la porta di camera sua esplose, con annesso il mobile appoggiato davanti. Akira partì di corsa, senza girarsi più.

Percorse quasi un isolato a passo sostenuto, prima di rendersi conto di non sapere dove stesse andando. Davanti ai suoi occhi passavano immagini sconclusionate di tutto quello che era successo in quei giorni.

Lei sapeva che tutte le cose succedevano per una ragione, solo che quella volta non capiva quale fosse.

Aveva vissuto diciotto anni di vita nell'assoluta convinzione che ci fosse una spiegazione a qualsiasi cosa. I fuochi d'artificio esplodono a causa di una combustione, i colori e le forme non sono altro che il risultato di manipolazioni chimiche.

Non esistono fuochi d'artificio che esplodono da soli, dragoni che nuotano nel cielo, persone che appaiono dal nulla, oggetti che si riparano da soli. Non esistono persone con bastoncini di legno che fanno esplodere porte e che fanno del male ad altre persone.

«Sto impazzendo» concluse Akira, sfregandosi le mani sul viso. Con sua sorpresa, si ritrovò ad avere i palmi delle mani bagnati di un liquido trasparente. Stava piangendo.

Riprese a correre, nonostante non sembrava che qualcuno la stesse inseguendo. Voleva tornare a casa, voleva assicurarsi che la sua famiglia stesse bene, ma sapeva anche che lei non avrebbe potuto fare niente per loro in quello stato.

Girò in una via sulla sinistra, con un'andatura regolare. Ormai doveva essere tardi, in giro non si vedeva più nessuno. L'oscurità aveva già preso possesso di Londra.

Si fermò davanti al numero cinque di Adam's Row. Era un palazzo alto, coi mattoni rossi e le finestre dai contorni bianchi. Sul tetto i comignoli buttavano fuori il fumo denso e grigio dei camini, che danzava trasportato dal vento.

Alzò il viso verso la facciata del palazzo. La finestra più a sinistra dell'ultimo piano apparteneva ad un appartamento che per Akira era quasi una seconda casa. Un posto dove si era rifugiata molte volte dopo le litigate con i suoi genitori.

Era la casa di Maximilian.

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Quando riuscì ad entrare in casa da loro, Akira era sotto shock e balbettava frasi sconclusionate più che parlare. I genitori di Max la presero come il risultato di una lite particolarmente violenta con sua madre, e la trattarono come facevano di solito: una tazza di tè caldo e la tranquillità della stanza di Max.

Era una stanza spoglia, con un paio di scatoloni in giro per il pavimento. Akira se la ricordava piena di poster, di piccole statuine di qualche anime, di pesi e di scarpe da ginnastica. Era una stanza vissuta, in cui lei da piccola aveva passato tante delle sue giornate. Ma al momento non era altro che una triste scatola grigia lasciata impolverare. Se Akira non fosse stata troppo in panico, si sarebbe decisamente accorta che c'era qualcosa che non andava.

Si lasciò cadere sul letto incassato, c'erano un paio di doghe rotte dalle troppe volte in cui i fratelli di Max ci erano saltati sopra, e rimase lì a tremare, con lo sguardo perso nel nulla. Dopo pochi secondi sentì il materasso abbassarsi ancora di più sotto il peso di Maximilian, e si lasciò avvolgere con un braccio, insensibile a tutto ciò che stava succedendo, chiusa nella sua testa per evitare di esplodere.

«Hai litigato ancora con tua madre?» le domandò il ragazzo, supponendo che fosse quello il problema.

Akira scosse la testa una volta, velocemente, per poi lasciare che una lacrima le solcasse la guancia, fino a caderle sulla gamba.

«Chiudi la porta» sussurrò con voce spezzata. Max pensò di aver capito male, e le lanciò un'occhiata perplessa. Quando Akira alzò i suoi occhi marroni, lui capì che era seria, e si mosse velocemente per chiudere la porta che dava sul corridoio. Tutta la luce sparì, e rimasero quasi al buio, illuminati solo dai lampioni fuori dalla finestra e dai fanali di qualche sporadica automobile.

Se c'era una cosa di Max che infastidiva terribilmente Akira, oltre al fatto che era irritante, sconsiderato e tendente a renderle la vita un inferno, era la sua capacità nel riconoscere quando la ragazza mentiva. Dire una bugia con lui era inutile. La leggeva negli occhi.

Per questo aveva deciso di dirgli la verità, anche se le probabilità che le avesse creduto sarebbero state tremendamente basse. Ma non c'era altro modo, aveva bisogno di aiuto, aveva bisogno del suo aiuto.

Dopo aver sentito il suo racconto, Max spalancò gli occhi, guardandola in un modo molto più serio del solito. Akira lo guardò perplessa, ma Max si risvegliò velocemente dal suo stato confusionale, e forzò un risata, prendendo quello che Akira gli stava dicendo come il risultato di un'allucinazione, o di una cena pesante.

«Sei sicura che non fosse solo un sogno?» le chiese, prendendola delicatamente dai polsi per cercare di calmarla. Lei scosse la testa due o tre volte, con forza. «Guardami» la riprese lui, appoggiandole due dita sulla linea morbida della mascella. Akira lo guardò negli occhi, attirata dalla sua voce bassa e calma.

La ragazza cercò di concentrarsi su di lui, nel tentativo di recuperare la calma perduta. Solo in quel momento si accorse che aveva i capelli umidi, come se fosse appena uscito dalla doccia. Stavano già iniziando ad arricciarsi sulla fronte e sulla linea del collo mano a mano che andavano asciugandosi. Profumavano di qualcosa di dolce, camomilla forse. Un profumo femminile. Forse era lo shampoo della sorella, che usava solo quelli alla camomilla per rendere ancora più biondi i suoi capelli.

Gli occhi chiari sembravano scuri a causa delle pupille dilatate, forse a causa del semibuio della stanza. Le ciglia bionde erano lunghe, quasi femminili, ma rendevano il viso del ragazzo estremamente attraente. E Max lo sapeva, sapeva l'effetto che faceva alle ragazze, e sperava nel momento in cui Akira si rendesse conto dell'effetto che faceva a lei.

Max si inclinò verso di lei, quasi sbilanciandosi troppo.

Lo scontro delle labbra fu impacciato, quasi violento. Max si divertì a scoprire il sapore delle sue labbra, bagnate dalle lacrime e spaccate da tutte le volte in cui lei si strappava le pelle a morsi. Labbra che non erano mai state baciate.

La baciò senza prima avvertirla, senza chiederle il permesso. anche senza decidere di farlo, ma semplicemente perchè non avrebbe potuto fare niente di diverso. Lui aveva bisogno di cibarsi del suo respiro affannoso. Apparteneva a lui, e lo voleva indietro.

Quanto sentì Akira abbandonare la tensione e appoggiare lieve una mano sul suo braccio, lui si sentì il Prescelto, il numero uno. Per una volta, aveva ottenuto tutto ciò che desiderava.

«Mi piaci più di quanto avessi previsto» sussurrò non appena si staccarono, labbra su labbra. Aprì gli occhi, e la vide rossa dall'imbarazzo, leggermente tremante. Piccola tra le sue braccia, indifesa come non lo era mai stata. Per la prima volta, tutte le difese che lei si era creata attorno erano cadute, e lui riusciva a vederla davvero.

Lasciò che si sistemasse a letto, dicendo che sarebbe passato a casa sua per vedere se stavano tutti bene. La lasciò pensare a quello che era successo, da sola, in compagnia solo del buio e del silenzio.

Arrivò a casa Campbell solo un quarto d'ora dopo, maledicendosi per non essersi messo una giacca un po' più pesante, si gelava. Per lo meno non gli servì neanche suonare al campanello, e subirsi i complimenti e le moine della madre di Akira. La finestra al primo piano, quella che dava nel salotto dell'appartamento, aveva le tende aperte, e la luce innondava quasi tutto l'ingresso della casa. Vide il padre di Akira passare davanti alla finestra. Era tranquillo, sembrava ridesse. Prese in braccio Seiji, e rideva pure lui.

Non sembrava fosse successo niente di quello che Akira aveva descritto lui. Nessun tipo di...magia.

Non che lui ne sapesse tanto, suo fratello Damian era l'esperto, quello che andava in quella scuola di pazzi psicopatici. No, niente magia in casa di Akira. Non lo avrebbe permesso. Non gli avrebbero portato via un'altra persona a lui cara.

Serrò la mascella. Come potevano aver fatto così male ad Akira, e poi ridere come se niente fosse? Come potevano comportarsi come si comportavano con lei, dopo che lei aveva rinunciato a tutto per lavorare in negozio col padre?

Una cosa era certa, Max non le avrebbe più permesso di tornare da una famiglia che non si preoccupava neanche di dove fosse andata la figlia.

Si girò con un movimento brusco, dando le spalle alla facciata della casa, e si allontanò nella notte, evitando per un pelo un gatto persiano che si era acciambellato sul marciapiede. 

Lᴀ Rᴀɢᴀᴢᴢᴀ ᴄʜᴇ Cʀᴇᴀᴠᴀ Fᴜᴏᴄʜɪ ᴅ'Aʀᴛɪғɪᴄɪᴏ ||Fʀᴇᴅ WᴇᴀꜱʟᴇʏDove le storie prendono vita. Scoprilo ora