Capitolo 23

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Mentre entro nella grande e moderna doccia dell'hotel, non posso fare a meno di ammettere a me stessa che avrei voluto quel bacio. Quando il cliente di Zayn ci ha interrotti ho sperato con tutta me stessa che il mio capo lo mandasse via per continuare ad avvicinarsi e stampare la sua bocca sulla mia ma, ovviamente, non è successo.

Siamo ritornati in hotel e, ancora, mi sono illusa che avremmo ripreso da dove avevamo lasciato e sono rimasta particolarmente delusa quando Zayn ha lanciato le sue cose sul divano e mi ha chiesto se avessi fame, totalmente disinteressato alle mie labbra. Mi sono limitata ad annuire appena e gli ho comunicato che mi sarei fatta una doccia veloce.

E, invece, sono sotto il potente getto di acqua calda da almeno mezz'ora e non riesco a non pensare a lui, alle sue labbra invitanti, al suo collo possente, a quegli occhi scuri e allungati, un po' socchiusi, che mi squadravano desiderosi. E perché, ora che siamo soli, non ci stiamo baciando appassionatamente? Mi insapono e la fragranza di fragola aleggia per tutto il bagno oltre che impregnare il mio corpo, lavo anche i miei capelli che odoravano di fumo e poi mi sciacquo lasciando che l'acqua mi ripulisca e mi rilassi.

Esco avvolgendomi in un asciugamano bianco, tampono anche i miei capelli con uno più piccolo con lo stesso logo dell'hotel e poi indosso le infradito prima di uscire e ritrovarmi in camera, dove Zayn annota qualcosa su una piccola agenda, seduto alla scrivania.

«Ti ho preparato un toast, ti va?» mi domanda gentilmente ma con serietà, quasi come se fosse ritornato ad essere solo il mio capo e non il ragazzo che stava per baciarmi un paio di ore fa.

«Certo.» annuisco io ancora asciugando i miei capelli con la salvietta, per poi scuoterli a testa in giù e ordinarli in una treccia mal fatta.

Lui si dirige subito in cucina e posso notare che si è cambiato indossando dei pantaloni della tuta un po' larghi e una canotta che rivela le sue braccia muscolose e la parte più alta del suo petto. Il mio toast e il suo panino ci aspettano già sul bancone quando ci sediamo, estrae anche una bottiglia di vino e una d'acqua e, imparando dagli errori, eviterò lo champagne stanotte.

«Sei stata molto brava stasera, i miei clienti mi hanno parlato più di te che dell'affare.» si complimenta lui subito prima di addentare il suo panino con il pollo.

«Grazie, non è stato difficile.» replico dopo aver bevuto un sorso dell'acqua fresca, non ci guardiamo più e mi mancano i suoi occhi che incontrano i miei.

Cala il silenzio e solo quando ormai ho mangiato metà del mio toast lui riprende a parlare: «Come hai iniziato?» chiede e io lo osservo un po' confusa alzando un sopracciglio struccato, «Intendo come hai iniziato a fare la spogliarellista. Se posso saperlo.»

«È una storia lunga.» mi limito a rispondere, sono stanca e non ho voglia di raccontargli la storia della mia vita. A dirla tutta, sono anche un po' arrabbiata con lui e mi sento strana e stupida per questo.

«Beh, io ho tempo.» abbozza un sorrisetto, ricordando quello che io gli avevo detto davanti alla splendida alba vicino al magazzino.

Faccio un lungo respiro prima di raccontare, non è mai facile per me rivivere tutto quel periodo. «Dopo la morte di mio padre, mia madre è caduta in una forte depressione e ha iniziato a fare uso di alcool, droghe, antidepressivi, qualsiasi cosa la aiutasse a non pensare.» temporeggio dando un altro morso al delizioso toast, non ho mai raccontato a nessuno tutta la mia storia, nemmeno a Sharon, «Da un giorno all'altro ha deciso di andarsene e non è mai più tornata.»

«Ti ha abbandonata?» domanda lui un po' sorpreso, allargando i suoi bellissimi occhi profondi.

«Sì, insieme a mia sorella che aveva solo tredici anni.» annuisco io e poi lascio scomparire le labbra all'interno della mia bocca.

«Dev'essere stata dura.» constata.

«Avevo solo diciott'anni e, mentre crescevo, ho dovuto imparare a crescere una ragazzina.» rispondo e ora mi sembra facilissimo aprirmi con lui, non so bene per quale motivo, «Non sapevo fare una lavatrice, non sapevo cucinare, non sapevo neanche cosa fosse una bolletta.» sorrido tra me e me al ricordo di quanto ho dovuto faticare e di come sono riuscita a cavarmela.

«E ti servivano i soldi...» incalza lui passando la mano tra i suoi capelli, scompigliandoli un po'.

«Già. Ho dovuto mollare tutto e cercarmi un lavoro che potesse permettermi di pagare l'affitto, la spesa, la scuola...» ammetto io, sposto una ciocca riccia e bagnata che cade sul mio viso uscendo dalla treccia, «Dylan pagava bene, potevo lavorare al bar al mattino e al club la sera, e riuscivo a guadagnare abbastanza da mantenere me e mia sorella e, qualche volta, anche a mettere qualcosa da parte.»

«Sei stata molto forte. Poche persone sarebbero state in grado di fare quello che hai fatto tu.»

«Beh, non avevo molta scelta.» faccio spallucce mordendo l'interno della mia guancia, «E tu?»

«Io cosa?» chiede alzandosi e mettendo nel lavabo i nostri piatti vuoti.

«Qual è la tua storia?» lo interrogo senza poter vedere il suo viso, sono certa che non sia contento della mia domanda, «Come sei arrivato ad essere il capo di una gang?»

«Per esigenza, un po' come te.» risponde girandosi un attimo per lanciarmi un'occhiata, «Il capo, prima di morire, era mio padre.»

«Eravate legati?» lo interrompo io tenendo tra le mani il mio bicchiere d'acqua.

Si gira un attimo scuotendo la testa, poi si volta di nuovo per sistemare qualcosa nel mobiletto in alto continuando: «Lui voleva che io seguissi i suoi passi e diventassi il capo dopo di lui, ma io non volevo, questo mondo non faceva per me. Volevo disegnare.» mi spiega e poi torna a sedersi sullo sgabello di fronte al mio.

«Poi?» lo invito a continuare con interesse.

«Poi hanno ucciso prima lui, poi mio fratello ed infine anche mia madre, ed io volevo solo giustizia.» fa spallucce come se non fosse nulla di importante ma, per la prima volta, riesco a tradurre la sua espressione, a capire quanto sia rattristato nel dire quelle parole.

Osservo i suoi occhi velati di dispiacere. «Mi dispiace.» riesco solo a dire con sincerità. Non riesco ad immaginare il dolore che abbia provato nel perdere tutta la sua famiglia.

Lui si limita a fare spallucce con un sorriso appena accennato, capisco che non vuole farsi vedere troppo emotivo e, soprattutto, che non vuole parlarne.

«Hai... Hai ucciso qualcuno?» chiedo d'impulso, mordo nervosamente la pelle attorno all'unghia del mio pollice.

«Non credo che tu voglia sentire la risposta.» tortura il suo labbro inferiore e, finalmente, le sue iridi spente e cupe si posano sulle mie, impaurite e curiose.

Rimango in silenzio, con la bocca aperta ma senza riuscire ad emettere alcun suono, con gli occhi aperti ma senza riuscire a guardarlo, con il respiro affannoso e un nodo alla gola. Non so bene che cosa mi aspettassi dal capo di una banda criminale che teneva la pistola in mano con quella maestria, ma sentirlo dire da lui mi provoca una fitta allo stomaco dolorosa e penetrante.

«Non ho mai ucciso persone innocenti.» si giustifica lui cercando il mio sguardo sfuggente.

«Oh, allora cambia tutto!» ribatto, il sarcasmo colora ogni mia parola mentre fisso un punto fuori dalla vetrata.

«No, certo che no, non cambia ma certe volte non si ha scelta. O si uccide, o si viene uccisi.» mi racconta con calma, forse per cercare di tranquillizzare anche a me, «Non ucciderei mai un innocente o qualcuno che non mette in pericolo la mia vita o quella della mia squadra.»

«Sei riuscito a farti giustizia?» chiedo e aspetto che lui annuisca prima di continuare, «E allora perché non hai smesso?»

«Credi che non ci abbia provato?» sbuffa lui, forse è addirittura innervosito ora, «Una volta entrati nel giro, è praticamente impossibile uscirne.» conclude lui, prima di congedarsi per andare a letto e lasciarmi lì, sola, con i miei pensieri.  

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