Capitolo 5

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Il vitellino che era nato alla fattoria di Matilde era piccolo e soffice. Altea lo stava accarezzando da quando era arrivata e nonostante all'inizio fosse parecchio diffidente, dopo un po' si era lasciato avvicinare.

Matilde indossava dei grossi scarponi marroni e aveva la gonna tirata su come faceva Altea quando lavorava nei campi. I capelli biondi legati in una grossa matassa sulla testa.

Il cielo quel giorno era particolarmente grigio, cosa positiva secondo Altea, almeno avrebbe annaffiato per bene l'orto. Aveva piantato tutte le piantine e sperava proprio che qualche piccola talpa non le rovinasse tutto il lavoro fatto.

«Dici che te lo ha comprato Luigi?»

«Luigi? Ma se non sa nemmeno chi sono? E poi come poteva sapere dove abitavo? Inoltre non si è mai allontanato dalla piazza e quando sono arrivata era già lì, quindi non può averci seguito.»

Matilde gettò la pala a terra e si lasciò ricadere di schiena sul prato, con le braccia distese.

«Sono stremata.»

Erano passati due giorni dalla festa e ancora non riusciva a spiegarsi come ci fosse finito quel cioccolato sul tavolo della sua cucina. Non lo aveva toccato, lo aveva solo spostato dal tavolo a un angolo del ripiano della cucina, per potersi appoggiare per cucinare, ma il cioccolato era come nuovo e non lo avrebbe toccato finché non avesse saputo chi lo aveva messo li. Anche perché se era stato rubato, non voleva di certo essere accusata e chiamata ladra.

Quella mattina, con pochissimo preavviso, il Signor Marconi l'aveva chiamata per chiederle se potesse andare a prendere Sofia a scuola e stare con lei fino al tardo pomeriggio, prima di cena. Nonostante Altea fosse distrutta dal lavoro svolto nei campi, aveva accettato volentieri, perché le servivano soldi.

«Allora, quando la facciamo quella cena?»

«Domani?»

«Devo sentire Rosalina e Giuliana» spiegò Matilde.

«Va bene. Di a Rosalina che se viene le preparo le fettuccine. Silvana ieri mi ha portato una cassetta di funghi che ha raccolto il marito, quando si è venuta a prendere il minestrone.»

«Fettuccine? Allora considerala confermata.»

Altea sorrise. Si alzò da terra e sgrullò la gonna dai fili di paglia che vi erano rimasti attaccati. Doveva prepararsi per andare da Sofia.

*

Il rientro a casa fu non poco disastroso. Le nuvole grigie che aveva visto quella mattina dal giardino di Matilde erano diventate nere, esplodendo in una tormenta di pioggia, quindi Altea oltre a correre pericolosamente sul ciglio della strada, senza un riparo, fradicia, era anche preoccupata per il suo orto e pregò affinché le piante non si rovinassero.

Mentre correva verso casa un'auto le sfrecciò accanto, inzuppandola ancora di più. La gonna era pesante addossò e mente correva la teneva su con le mani, per non inciamparvi.

Imboccò il vialetto di casa e arrivò sotto il tettuccio che riparava la sua porta, in tempo in tempo per preparare la cena, perché Silvana, poco prima che andasse da Sofia, le aveva chiesto se poteva preparare qualcosa a lei e al marito. E come poteva Altea dirle di no?

Prima di entrare gettò uno sguardo verso i campi, ma fuori era già tutto buio e la visuale scarsa. Entrò in casa e si spogliò nei pressi della porta, rimanendo con la sottoveste color panna che solo in parte si era salvata, ma doveva cambiare anche quella. Afferrò il cumulo di panni fradici e li portò nel bagno, ma prima di lavarli aveva bisogno di una doccia.

In fretta e furia si lavò, mise i panni a mollo e dopo aver indossato un vecchio vestito a fiorellini che le era rimasto della mamma, corse in cucina e si legò la parannanza intorno alla vita.

Il cioccolato era ancora lì, nell'angolo dove lo aveva lasciato e questo provava che non poteva camminare da solo e andarsene dove gli pareva. Sì! Aveva pensato anche a questa possibilità.

Tirò fuori dal frigorifero sedano, carota e cipolla, prese da sotto il mobile tre barattoli di fagioli e poggiandosi sul ripiano vicino ai fornelli, iniziò a tritare le verdure per il soffritto. Mentre quelle sfrigolavano nella pentola di coccio, aprì i tre barattoli e sciacquò i fagioli sotto un getto d'acqua. Quando il soffritto era bello rosolato vi versò dentro i fagioli, aggiunse l'acqua, olio, sale e pepe.

«Ah! Il pomodoro.»

Andò verso il frigorifero e tirò fuori un paio di pomodori, i più rossi e maturi che c'erano e si riavvicinò verso il lavabo per sciacquarli.

Mentre si spostava per avvicinarsi alla pentola sul fuoco, Altea prese in mano un coltello, consapevole che ci fosse qualcosa di diverso, qualcosa che non andava. Così come era successo con la cioccolata, la sua vista periferica aveva registrato qualcosa. Un'ombra, forse.

Mentre tagliava i pomodori il suo corpo iniziò ad avere una reazione che la mise in confusione, perché non aveva veramente colto qualcosa per la quale le sue mani avrebbero dovuto irrigidirsi e smettere di tagliarli. Eppure le si rizzarono i peli dietro al collo, un freddo le salì su lungo la spina dorsale e tutto improvvisamente iniziò ad urlare pericolo.

Quell'ombra assunse improvvisamente un senso; una forma. I peli le si rizzarono e sentì un brivido scorrerle tra i capelli, come milioni di piccole diramazioni di elettricità.

Nel tempo di un battito di ciglia, Altea lasciò cadere il pomodoro e afferrò il grosso e pesante tagliere in legno che aveva fatto suo padre. Ignorando il tremore alle braccia e un grido che sembrava strapparle le budella, ruotò su se stessa, sbilanciandosi lì oltre il tavolo, dove pensava ci fosse il pericolo, e scaraventò quel grosso pezzo di legno con tutta la forza che aveva sulle braccia.

Quando il tagliere colpì il viso di un uomo provocando un tonfo sordo, il grido che Altea stava trattenendo dentro di sé proruppe come un tuono. Continuò a martellare con quel tagliere, ignara di cosa stesse veramente accadendo, finché capì che nessuna conseguenza derivava da quel gesto. Si lasciò cadere indietro contro il lavabo. Il tagliere cadde a terra e Altea aprì il cassetto e afferrò il coltello più grande che aveva.

Si sentiva solo lei. Le sue urla, la zuppa di legumi che bolliva, la pioggia che batteva e i tuoni che rombavano nel cielo... esatto. Era questo che la faceva sentire ancora più confusa e impaurita.

Quello seduto sulla sedia della sua cucina era un uomo. Un uomo che non si era scomposto, né difeso mentre lei lo picchiava. Stava lì, inerme, con un bracciò poggiato sopra al tavolo, l'altro lasciato ricadere lungo il fianco. I suoi capelli erano lunghi, scuri e bagnati, come quelli di Altea. Non riusciva a vedere il suo viso perché stava con il capo ancora chino per le botte che Altea gli aveva dato con il tagliere.

«Chi sei?» gridò Altea con voce tremante. «Cosa vuoi? Come sei entrato?»

Silenzio.

«Sei entrato dalla finestra?»

Il ragazzo alzò la testa e la voltò lentamente verso di lei.

«Che cosa vuoi? Vattene subito o giuro che ti ammazzo.»

Il volto del ragazzo era inespressivo. La guardava in silenzio, senza muovere un muscolo, cosa che inquietò Altea fin nel profondo delle sue viscere. Sembrava un serpente pronto a scattare.

«Vattene, ho detto!»

Solo in quel momento notò che il suo volto era completamente illeso, come se non lo avesse colpito una decina di volte con una tavola di legno. E mentre lei ragionava su questo, in un battito di ciglia, lui non era più lì.

Prese a sbattere le palpebre, come se per magia fosse quel movimento a farlo apparire e scomparire. Si guardava intorno, pensando si fosse spostato. Guardò anche alle sue spalle, pensando potesse essersi appollaiato come un condor sul lavabo, pronto a pizzicarla alla gola. Un tuono illuminò tutta la cucina e Altea sobbalzò, facendo cadere il coltello a terra. Dopo aver controllato in tutta casa ed essersi assicurata che la porta fosse chiusa con tutte le mandate possibili, rimase per qualche istante a guardare quella sedia vuota, come se lui potesse riapparire da un momento all'altro. Eppure, dopo un tempo infinito, la sedia era vuota, la cucina un casino e lei si chiedeva se non avesse avuto una visione.

Quando cala il buioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora