Capitolo 33

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Un'ora e mezza.

Quando una macchina aveva sbalzato il corpo di Rosalina come fosse fatto di burro, Altea aveva sentito dentro di sé spezzarsi qualcosa.

Il tonfo sordo che aveva fatto il corpo ricadendo a terra le risuonava ancora in testa. Non avrebbe mai dimenticato quel rumore.

Era seduta nella sala d'attesa dell'ospedale, lo stesso ospedale dove lavorava Dante.

Le sembrava tutto un fottuto gioco, una maledetta presa per il culo. Stava giocando con le loro vite come se non contassero nulla, niente di più che pulviscoli nell'universo.

Era un sadico figlio di puttana e Altea doveva ucciderlo.

Le lacrime le scorrevano lungo le guance mentre aspettava in sala d'attesa, su una di quelle poltroncine maledettamente strette. Aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia, il volto nascosto tra le mani mentre si guardava i piedi che tenevano stretto lo zaino tra di loro.

Era seduta lì da quella che le sembrava un'eternità e continuava a guardare l'orologio sulla parete di fronte a lei, la gamba destra che tremava a un ritmo incontrollabile, il labbro inferiore sanguinante dopo che se lo era lacerato con i denti per il nervoso, la rabbia, il dolore.

Rosalina era in sala operatoria. I parametri erano bassi, il cuore pulsava troppo lentamente e aveva acqua nei polmoni. Le gambe erano fratturate, così come la spalla e il braccio destro. I dottori avevano detto che aveva un ematoma subdurale. Altea non aveva la più pallida idea di che cosa significasse, ma le sembrava maledettamente grave.

Il ticchettio dell'orologio le martellava nella testa, insieme al rumore del corpo di Rosalina che ricadeva a terra. Una cacofonia di suoni rischiavano di farla impazzire, il labbro la bruciava.

Nelle lunghe ore nelle quali era rimasta seduta lì, era venuto un infermiere con quell'inconfondibile sguardo da bambola senz'anima e le aveva lasciato un biglietto.

Altea lo aveva preso con arrendevolezza, senza dire niente.

Cosa si prova a vedere la propria vita che va in pezzi? A sapere che l'uomo con il quale vai a letto è della mia stessa razza?

Dante si sbagliava su parecchie cose.

La prima era che non era mai andata a letto con Damiano.

La seconda era che Damiano non era come lui.

L'ultima... la sua vita era già andata in pezzi parecchio tempo fa, quando erano morti i suoi genitori.

Altea si rese conto che alla fin fine, anche se sarebbe morta, non aveva niente da perdere. I suoi amici avevano delle famiglie che gli volevano bene, ma lei era sola. Se la sarebbero cavata, avrebbero pianto per un po' di tempo, ma poi si sarebbero ritirati su facendosi forza a vicenda. Lei invece era sola. Non avrebbe lasciato figli, né genitori.

Solo Damiano, ma il loro rapporto non era ancora così intimo da farle pensare che si sarebbe strutto per lei.

Un'ora e quindici.

Il sole stava calando. Dalle finestre entrava una luce calda, sempre più rossa. Tra circa quindici minuti sarebbe dovuta essere alla chiesa, da padre Norman, intenta a scovare la tana di quel figlio di puttana e mettere fine alla sua vita.

Si alzò dalla sedia e fermò il primo dottore che incontrò nel corridoio.

«Ci sono notizie della mia amica?»

Il dottore, che era quello che si occupava di parlare con i parenti che come lei stavano aspettando un esito, teneva una cartellina in mano. Andò a sfogliare le pagine.

«Rosalina Melliso?» domandò.

Altea annuì.

«È ancora in sala operatoria. L'intervento è quasi finito. Sembra stia andando tutto bene, ma le gambe sono molto compromesse. Forse non camminerà più» le spiegò con tono dolce.

Ma Altea riusciva a pensare solo una cosa.

Sopravvivrà.

Avrebbe voluto aspettare la fine dell'intervento, vederla, chiederle scusa. Ma non poteva.

Se voleva salvarli, doveva andare a quella chiesa.

Quando cala il buioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora