venti

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Per parecchio tempo rimani sdraiata su quello che credevi sarebbe diventata la tua bara; un lettino da sala medica, non troppo comodo a causa del sottile strato del materassino, ma neanche duro come la lastra di ferro che Eden aveva descritto nei racconti su tua madre. Sotto le dita delle mani riesci a sentirne i tagli profondi, solchi, anzi cicatrici da cui spunta della soffice ovatta di cui ignori il colore. Con la testa immobilizzata da una cinghia di cuoio che durante l'elettroshock era rimasta inutilizzata, perlustri quel poco che ti è consentito percepire tramite i cinque sensi. È allora che il taglio sotto la tua mano - ferma anch'essa - ricopre un ruolo decisivo nella scoperta dell'ambiente.

Il tatto è il primo a risvegliarsi, seppur lentamente. Capisci che i tuoi polpastrelli riacquisiscono sensibilità quando la pelle del materassino smette di solleticarti e ne percepisci la durezza in forte contrasto con la nuvola d'ovatta pochi millimetri più a destra. Il tuo corpo finalmente avverte il freddo umido della stanza vuota circondarlo come una coperta di gelatina; la punta del naso è paragonabile a uno stalattite, i piedi a malapena si muovono e per un istante ripensi al tuo comodo risveglio in hotel, qualche giorno prima, all'incontro con Dwight e all'inizio della fine.

Tocca all'udito. Vorresti utilizzarlo, non vanificare uno dei tuoi sensi, ma non ti è permesso in quell'assordante silenzio. Sei sola, completamente abbandonata a te stessa, oppure sei osservata da una statua incapace di fiatare o respirare.
Colin? No. Colin lo sentiresti, non con le orecchie ma con ogni cellula del tuo corpo. Così come sentiresti sua madre, quella sadica puttana che ti ha intrappolata nell'incubo di Vasilisa. Ti domandi se, al netto della minaccia usata per portarti lì e della tortura appena subita, avuta opportunità di scelta avresti comunque seguito Martha Kray. "Ti porterò in un posto elegante, in cui potrai ricongiungerti con la tua cara mammina", aveva detto per convincerti, facendoti quasi credere che fossero riusciti a catturarla e che ti stessero portando da lei. Eppure, di Vasilisa non vi era traccia e, solo al tuo risveglio su quel lettino, hai capito che il motivo della tua presenza è sempre stato quello di richiamare la sua attenzione, di costringerla ad uscire allo scoperto. E chissà se la minaccia al Paradise - la casa della kitsune, il suo confortevole nightclub di New York - fosse reale o una mera messa in scena.

Improvvisamente la vista non serve più, il vivido ricordo della stanza torna a riempire i tuoi pensieri. Anche bendata rievocheresti il disgustoso laboratorio in cui sei stata gettata. Il soffitto grigio, simile al soffitto di qualunque abitazione, motel e strada in cui tu ti sia mai svegliata, si tinge del disegno di quel ricordo. Poi una voce echeggia nella tua mente. "La ucciderai. Dalle tregua.", il lamento di un angelo di cui sei certa di ricordare l'identità. Dwight Kray. Non può essere altri che lui.

Stai per esaminare ciò che rimane - gusto e olfatto - ma al di là dell'odore di cortocircuito e il nauseabondo miasma che spinge contro le tue papille gustative entrandoti in gola, non ti è dato il tempo materiale di comprendere altro. È il forte tonfo al di là della tua testa a farti sbarrare le palpebre con ansia crescente. Il trambusto che entra dall'uscio della porta viene spezzato dai passi frenetici di un uomo. Non lo vedi, non ancora, ma scalpiti all'idea che possa trattarsi di Dwight. E, fiduciosa, in attesa del tuo salvatore, quando egli ti cammina di fianco e si volta a guardarti con un sorriso sadico e una teatrale sigaretta tra le labbra, trattieni l'impellente bisogno di urlare.

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