ventuno

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"Ti reggi in piedi?" quella domanda suona così simile alle altre mille rassicuranti che suo fratello ti ha posto nei giorni precedenti. La tua risposta, però, lascia le labbra con un ringhio feroce e intimidatorio che non sortisce in lui l'effetto sperato. La sirena d'allarme fuori dal laboratorio preme come aghi nei tuoi timpani, mentre la mitraglietta sulla spalla del tuo salvatore viene posata su un carrellino poco lontano dai tuoi piedi. Le agili mani del serpente ti liberano dalle cinghie: prima tocca alle mani, poi alla fronte e solo infine alle caviglie. Stupidamente, tenti di metterti a sedere nell'immediato, ma il cerchio che ha stretto la tua testa fino a quel momento ti fa barcollare avanti e indietro priva di forze. "Credo sia un no."
La voce vellutata e profonda dell'uomo striscia fino alle orecchio come se foste ancora in quella dannata reception, poi le sue mani ti tengono le spalle saldamente. Il sorrisetto che ha dipinto in volto ti dona giusto quella spinta d'adrenalina necessaria a stampargli qualche goccia di saliva su mento e guancia sinistra. Il bastardo irrigidisce la mascella e si pulisce con la manica della giacca elegante, per poi infilare le mani sotto le tue ascelle e trascinarti sul pavimento.

"Non hai alternative. Devi stare in piedi e camminare. Se cadi, non torno a prenderti."

Crudele, ti sbatte in faccia la responsabilità di badare a te stessa anche in seguito all'elettroshock, pur vedendo le tue gambe molli e gelatinose farti barcollare come un morta di fame. La frustrazione che provi nel non riuscire a controllare il tuo corpo è immensa, ti pervade e trova trionfo in una lacrima che riga la tua pallida guancia. Perché non reagisci? E perché doveva essere proprio quello stronzo a salvarti le chiappe?

"Figlio di puttana." È tutto ciò che riesci a dire, mentre lui si riprende la mitraglietta. In un attimo, seppur consapevole che tu abbia solo detto la verità, la sua mano destra pinza le tue guance con forza, costringendoti a guardarlo.
"Attenta a come parli." Soffia la furia omicida sulle tue labbra, dandoti un avvertimento che però in te causa ilarità. Quella risata provocatoria rievoca nella mente di entrambi un ricordo che a te appare ancora offuscato, annebbiato.

"Se la uccidi non servirà più a niente." Afferma Colin nell'angolo del laboratorio, interrompendo l'elettroshock e le tue urla. Parte del dolore si dissipa lentamente poco dopo; il brivido della scossa si trasforma in un malato piacere che ti autoimponi pur di non impazzire. E, carica di quella suggestione forzata, lasci che una risata vibri inquietante nella stanza. Non puoi vederlo, ma il principino dei Kray ti lancia un'occhiata fiera. Forse è allora che capisce che non saresti morta per così poco, non con suo padre ancora in vita.
"La stai proteggendo?" domanda incredula Martha, facendo cenno ai tirapiedi di fermare ciò che stanno facendo. Colin si rabbuia, china il capo colpevole e scuote la testa in cenno di negazione. E dunque lei prosegue. "Non la ucciderò, Romeo. Ma anche se morisse, cosa che non mi sembra disposta a fare, riusciremmo nell'intento di portare qui la kitsune."
"Ma sarà incontrollabile, furiosa. Sarà letale." Risponde con audacia, dinanzi all'autorevole donna che lo fronteggia, risollevando il mento ed esibendo un'espressione neutra. Martha gli si avvicina, si blocca ad un passo da lui e, a seguito di un teso silenzio, schiaffeggia la sua guancia con forza. Colin non reagisce, sospira sofferente e ingoia qualunque parola stia tremando sulla punta della lingua. "Dubiti della mia letalità?"
"No, madre."
Martha ha gli occhi iniettati di sangue, esausti e supplicanti, ma sempre dignitosi. Con il sottofondo delle tue risate che via via vanno scemando, ricorda a Colin perché siano lì e perché la tua sofferenza sia necessaria. "Sono stanca di vedere tuo padre in pena per una stronzetta. La fronteggerò e sarò pronta a tutto pur di dare un taglio a questa patetica vicenda. Pur di tenere i miei figli al sicuro."

Le dita lunghe e severe abbandonano il tuo viso. Ti sembra di aver scavato nei suoi occhi per almeno dieci minuti, senza mai respirare. O che lui abbia scavato nei tuoi, che abbia esplorato i tuoi pensieri e li abbia contaminati. Eppure, stavolta, la fatica è sul volto di entrambi. È questione di un sospiro affinché vi scolliate da lì. La mano, ora libera, si insinua sotto la cintura per sfilare un kunai e porgertelo. "Questo è tuo."
Ti arma, ti dà qualcosa con cui poterlo ferire, di nuovo, consapevole di essere l'unica tua chance di uscire da lì viva. Non ti fidi, è una situazione temporanea, un'alleanza fittizia da ambo le parti. Eppure non comprendi cosa sia accaduto per portarlo da te con quelle intenzioni, nelle vesti di eroe, né perché sia andato contro il volere di sua madre. Il kunai, ancora sporco di sangue, giace appeso al tuo indice destro, a riposo. Non lo userai, non ancora.

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