Capitolo 27

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(Canzone consigliata: Hurricane - Tommee Profitt & Fleurie).

Nerissa.

Non ricordo precisamente il momento in cui le mie palpebre si erano chiuse, ma alla fine ero crollata in un sonno appagato.

Ancora sentivo il sapore della pelle di Ethan sul palato e il suo profumo sulla mia pelle nuda.

Non riuscivo a venire a patti con quello che era successo. Quei baci, quei morsi, quelle strette... Mi avevano donato sollievo ma allo stesso tempo dolore, facendo tremare quell'organo che ormai da tempo aveva smesso di provare emozioni per qualcuno che non fosse mia sorella.

Quello stesso organo che da bambina avevo chiuso in uno scrigno e sepolto sotto strati e strati di cemento, per tutelarlo dall'orrore che già sapevo sarebbe stata la mia vita.

Avevo smesso di giocare e di sognare le fate nel momento stesso in cui mio padre era venuto a riprendermi nel seminterrato la prima volta. E da quel giorno, il mio cuore era sempre rimasto silente.

Ammetto che qualche volta lo avevo sentito stringersi, come per ricordarmi della sua presenza. Lo avevo ignorato e continuato a martoriare la mia coscienza, convincendomi che se l'avessi spezzata del tutto non avrei dovuto pagarle il conto.

Non mi aveva mai resa felice uccidere.

Certo, mi regalava un senso di soddisfazione far piegare gli uomini sotto la mia lama mentre mi godevo le loro preghiere. Ma non ne ero mai stata felice.

Non lo avevo scelto.

La Nerissa adolescente, a volte, aveva dovuto combattere contro la voglia di rivalsa. La voglia di avere libertà di scelta.

La Nerissa adulta, quella persona che ero diventata, aveva scelto di immaginare di avere quella libertà. Di illudersi che sentire quella sostanza viscosa sulle mani non le facesse venire il ribrezzo.

Di fingere dei sorrisi quando si guardava allo specchio.

La mia vita era tutta una cazzo di farsa, e lo sapevo.

Ma la sensazione che mi avevano regalato le mani di Ethan sul mio corpo nudo, mi avevano fatto sentire come se in realtà io fossi reale.

Come se io fossi Nene.

Quindi, no. Non era facile venire a patti con quello che era successo tra quelle lenzuola, che ancora accarezzavano i miei capezzoli mentre guardavo il soffitto.

Per un solo piccolo istante, pensai a una vita diversa. Lontano dalla Sin City.

Le risate mentre avrei bevuto un drink con delle amiche assolutamente normali, in un locale assolutamente normale. Il caffè che avrei assaggiato la mattina mentre mi sarei diretta verso il posto di lavoro e i sorrisi che avrei regalato ai colleghi, soprattutto a quelli che mi sarebbero stati sulle palle.

La spensieratezza di flirtare con un uomo solo per puro divertimento innocente e non per un secondo fine.

Magari avrei avuto anche un cane.

Magari avrei avuto India con me.

«No.» Mi sedetti con uno scatto. «Assolutamente no, cazzo.»

Mi guardai intorno nella stanza buia mentre le luci della città mi salutavano. Non sapevo che ore fossero di preciso, ma sicuramente era notte inoltrata.

E il lato del letto accanto a me era vuoto.

Ridacchiai mentre mi alzavo, pensando che non avesse avuto nemmeno il coraggio di dormire con me.

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