Capitolo 48

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(Canzone consigliata: do you really want to hurt me? - Nessa Barret).

Nerissa.

Traffico di esseri umani.

Quelle parole così sporche continuavano a tornarmi in mente, come se fossi in un loop continuo senza trovare il modo di interrompere le sequenze di teorie che frullavano dietro i miei occhi.

Era diventato estenuante continuare a pensare che fosse anche colpa mia, in parte. È vero, non ero a conoscenza di una realtà così crudele e oltre ogni perversione possibile. Ma se ne fossi stata a conoscenza lo avrei fermato?

Conoscevo benissimo l'ascendente che aveva avuto mio padre sulla mia persona negli anni, come conoscevo anche la persona che ero diventata. La Nerissa che ero ora lo avrebbe fermato senza nemmeno perdere un millesimo di secondo, ma non ero così sicura che la Nerissa di un tempo lo avrebbe fermato.

Quel pensiero era fin troppo intrusivo per la mia testa crollata su sé stessa.

Certo che la vita ha proprio un bel senso dell'umorismo. Appena fai un passo avanti per recuperare tutte le parti di te stesso che hai perso, lei ti porta a farne almeno cento indietro. Come se stessi correndo verso l'uscita di una galleria buia, ma sei sempre al punto di partenza.

Perfino il coinvolgimento della mafia russa e, avevo dedotto, la Yakuza, mi faceva storcere il naso per la confusione. Avevo visto persone di tutti i tipi entrare ed uscire dall'ufficio di mio padre, eppure nessuna mi aveva mai dato la sensazione di far parte di determinate organizzazioni.

E, per far fiorire ancora di più il mio senso di colpa, non mi ero mai nemmeno chiesta se il giro di prostituzione di mio padre avesse qualcosa a che fare con il consenso delle ragazze e delle donne che ci lavoravano. Avevo dato così tante cose per scontate che alla fine mi ero ritrovata con un'infinità di interrogativi, senza trovare, seppur piccola, risposta.

Il disprezzo verso la persona che avrebbe dovuto essere mio padre non faceva che aumentare con il passare delle ore.

Ecco spiegato il motivo per cui dovetti ingoiare la mia stessa bile mentre varcavo le porte del casinò sulla Strip, ancora in fase di ristrutturazione. Quasi riuscivo a percepire il rumore degli spari di quel giorno, le urla di Ethan prima che io perdessi i sensi. E a percepire l'odore ferroso del sangue e quello bruciante della polvere da sparo. Un brivido gelido quasi mi fece sussultare mentre continuavo a guardare quello spettacolo così tetro.

I tavoli da gioco erano già stati sostituiti, come anche le travi del soffitto. Ma alcune slot machine ancora avevano i fori dei proiettili sui loro schermi e i loro sgabelli. Il pavimento era stato ripulito dal sangue e dai bossoli, ma era pieno di polvere e cenere.

Non sapevo quando aveva indotto la ristrutturazione mio padre, ma sembrava che lì dentro non entrasse nessuno da giorni. Ethan mi aveva confessato di aver dato fuoco a ogni cosa quando non riusciva a trovarmi, e che i pompieri si erano fatti vivi quasi subito. Aveva apportato dei danni, ma non irreversibili. Purtroppo.

Quella maledetta costruzione ancora si reggeva in piedi, come se non volesse arrendersi.

Camminai verso le scale per andare nell'ufficio che aveva Thomas Tornei lì, lo stesso ufficio che mi aveva dato il bentornato una volta atterrata a Las Vegas.

Mi sembrava passata un'eternità da quando avevo rimesso piede nella mia città natale, come se il tempo e lo spazio si percepissero in modo totalmente diverso tra quelle strade.

Anche se Ethan aveva insistito per accompagnarmi, ero riuscita a convincerlo ad aspettarmi in auto. Quelle ricerche dovevo farle da sola.

Provavo troppa vergogna, anche verso me stessa. Perché, se quello che avessi trovato mi avrebbe dato la conferma della mia stupidità, allora preferivo essere da sola.

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