Capitolo 44

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(Canzone consigliata: I Found - Amber Run).

Nerissa.

Mi sentivo un'estranea nel mio stesso corpo, come se la mia pelle fosse composta da qualcosa che non conoscevo più. I miei pensieri erano formati di carta pesta, così accartocciata che nemmeno stenderli per bene avrebbe reso quelle pieghe meno decise. Tutto mi sembrava così strano, perfino l'aria pulita che respiravo nella camera di Ethan.

Avvertivo il mio corpo debole, ma allo stesso tempo come se non si fosse arreso e stesse combattendo contro qualsiasi cosa albergava all'interno di esso. La disperazione era ancora lì, nascosta in bella vista dietro ai miei occhi. La sensazione di essere stata privata di qualcosa di importante mi perseguitava ad ogni respiro, ma non riuscivo a capire la sua identità. Non avrei avuto modo di cercarla.

La mia solita rabbia, la mia vecchia amica, sembrava come sparita. Troppo stanca di alloggiare in una mente e in un corpo maltrattati a tal punto.

Non sentivo quasi niente, solo quella disperazione che rendeva ogni mio battito di ciglia uno straziante lamento infinito.

Continuavo a chiedermi il motivo per cui Ethan fosse tornato a prendermi, perché non aveva lasciato che mi uccidesse? Perché continuare a iniettarmi dolore nel sangue?

Lo stesso sangue che avevo avvertito sulla mia pelle la sera prima come se fosse ruggine. Quella pelle estranea che ricopriva il mio corpo tirava come se stesse per strapparsi e non avevo la benché minima voglia di alzarmi dal letto, lasciare l'abbraccio di quell'uomo freddo e camminare per sgranchire le gambe.

La doccia della sera prima aveva aiutato, soprattutto per pulire polvere e angoscia. Ma nemmeno ascoltare il ritmo del respiro di Ethan sul mio collo stava riuscendo a calmare la mia mente inquieta.

Sembrava che non riuscissi a provare nulla ma, allo stesso tempo, ne avevo un bisogno così disperato che nemmeno i miei pensieri sapevano dove andare a parare.

Avrei potuto continuare a starmene sdraiata proprio in quel luogo in cui avevo imparato a sentirmi al sicuro, ma non avrebbe portato a nulla.

Racimolai le ultime forze che mi erano rimaste per scendere da quel letto e mettermi in piedi. La tenue luce dell'alba filtrava dalle tende scure che adornavano l'enorme finestra del superattico e donava al pelo di India una tonalità davvero spettacolare. Era seduta davanti a me, con i suoi occhi espressivi pieni di gioia mentre mi scrutava con aspettativa.

Avrei voluto giocare con lei, ma non ero sicura di esserne in grado. Le accarezzai le orecchie morbide prima di dirigermi verso la cucina.

Perfino percorrere quei pochi metri mi sembrava del tutto surreale, ma dovevo ricominciare a vivere la mia vita e dovevo farlo nel momento esatto in cui avrei preso un sorso di caffè.

Anche se il mio stomaco non chiedeva cibo da un bel po', sapevo benissimo che dovevo mangiare e bere come prima. Avvertivo i muscoli quasi atrofizzati e non riuscivo a non pensare che non fosse un buon segno.

Dovevo tornare in palestra, tornare ad allenarmi, anche se il solo pensiero mi faceva venire quasi ansia.

Non mi ero mai sentita in quel modo. Come se ogni respiro fosse falso, come se io non dovessi trovarmi in quel luogo e in quell'esatto momento.

Nonostante avessi vissuto una vita che non avevo scelto, alla fine l'avevo resa mia. L'avevo resa l'unica scelta che potevo fare ogni giorno. Mi ero sempre sentita a mio agio nel sentirmi a disagio, nel trovarmi in un certo luogo deciso da mio padre per uccidere qualcuno deciso da lui.

Paradossalmente l'unica scelta che avevo compiuto nella mia vita era stata quella di intraprendere una finta relazione con lo stesso uomo che alla fine mi aveva salvata, lo stesso che aveva giurato di uccidermi e di odiarmi.

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