Salivo le scale
del mio vecchio palazzo
dove un tempo abitavo:
una tromba delle scale infinita
ed infinite porte chiuse.
Ho scordato il telefono
sulla piglia del cancello,
del cancello che dà sul cortile
dove un tempo giocavo.
Avevo acceso la musica
per farmi compagnia,
per coprire il rimbombare
dei miei passi solitari
che sono l'eco del vuoto,
di un vuoto assordante.
L'ho lasciato lì per un istante,
un istante oltremodo allungato
e magari qualcuno me lo ruberà!
Meglio tornare indietro,
scendere le scale e prenderlo;
in effetti sento la musica
che si allontana, per cui forse
è già troppo tardi per riaverlo.
In lontananza scorgo
nella strada deserta
una giovane gitana
con la sua figlioletta,
sicché la seguo mentre
al parco la porta.
Mi avvicino ed odo la musica
provenire dalla sua borsa,
così gentilmente chiedo
il telefono indietro perché
lì dentro c'è la mia vita.
Lei nega di averlo,
l'evidenza lei nega.
La imploro, mi adiro,
frugo nella sua borsa,
ma lei mi respinge
senza alcun turbamento.
Intanto,
con mio grande stupore,
la figlioletta mi bacia il petto,
il petto nudo e mi sfiora il cuore,
con occhi grandi che vogliono
forse chiamarmi "padre",
mi guarda decisa mentre la
giovane e bellissima gitana,
senza esitazione alcuna,
mi tira verso di sé e mi abbraccia
quasi paralizzandomi.
Mi abbraccia intensamente
e quel che mi trasmette
è difficile spiegarlo a parole,
a parole non si può narrare.
Io mi arrendo a te,
giovane mamma nomade,
mi lascio rapinare se vuoi,
tieni pure quel mondo
fatto di cibernetico nulla.
Rapiscimi anche il cuore
perché non troverò niente
lassù, in cima alle scale
di un palazzo che ormai
non mi appartiene più
e non più contiene
le mie antiche radici.
Oh gitana,
giovane mamma vagabonda,
è talmente bello lasciarsi andare
in questo risoluto abbraccio che
non eravate nei miei programmi,
borghesi ed ambiziosi,
ma ora sono vostro
e voi la mia famiglia.
Abiteremo in tutti i luoghi
e apparterremo a nessuno,
avremo nulla e quindi tutto:
l'amore e la libertà,
giovane gitana.