Perché un accadimento non può avere più di una causa?
Che sia sociale, culturale, antropologica, personologica, biologica o psicologica.
Più di un singolo racconto; delle concause che interconnettano la complessità dei fenomeni.
No: ci deve essere una lettura di un fenomeno assolutista che riduce le altre al niente.
Ragioniamo per slogan ormai: non c'è tempo che per un cinguettio in rete e poco importa di un'onesta analisi che ambisca all'oggettivo, forse ancor meno del fatto accaduto.
L'importante è scegliere una narrazione per gridare al mondo da che parte stiamo, come per le squadre di calcio, e sventolare la nostra bandiera.
La parola concausa parrebbe caduta in disuso oramai, forse perché più di una narrazione non ci sta in una testa così poco capiente come quella bombardata da continui e scadenti file multimediali che regrediscono l'umanità ad una neoprimitiva oralità.
Ed è sintomatico il fatto che oramai anche un gesto di galanteria sia guardato con diffidenza: significa che la mente ha "deragliato" nella sua lettura univoca e continuamente sospettosa del reale, prigioniera del suo stesso sistema di pensiero che declina in un sol modo, spesso forzatamente e quindi in maniera quantomeno imprecisa, ogni parola e azione, come in una sorta di lucido delirio paranoide.
Ecco quindi che il racconto che scegliamo determina la nostra identità e, come in una doppia implicazione, tale identità ci impone di adottare una certa narrazione.
Una e una sola narrazione.
La mente ridotta ad un punto.