Capitolo 29

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Simon

«Si può sapere cosa ti prende oggi?» urla Mitch quando sbaglio l'ennesimo tiro. Mi tolgo il casco protettivo asciugandomi il sudore dalla fronte. Dovrei essere arrabbiato perché il mio amico sta alzando la voce davanti a tutti mettendo in difficoltà l'unica persona che dovrebbe essere di grado superiore, ma ha ragione e non posso essere stronzo due volte. Non mi sto impegnando come dovrei, la mia attenzione è altrove e gli allenamenti sembrano inutili nello stato in cui mi trovo adesso.

«Ho bisogno di una pausa».

«Simon» mi guarda Mitch corrugando la fronte. «Domani c'è la partita».

Non aggiunge altro, ma la sua espressione è eloquente. Noto che anche gli altri ragazzi si stanno avvicinando chiaramente sorpresi dalla mia pessima performance, non ho mai sbagliato un colpo e la preoccupazione di tutto è giustificata. Sento crescere la pressione ed è la prima volta. Non mi sono mai seriamente preoccupato per una partita. L'adrenalina, la voglia di giocare la sicurezza che avremmo vinto mi rende sempre tranquillo riuscendo a trasmettere la mia serenità anche ai miei compagni, ma non stavolta e il primo a sentirmi strano sono proprio io.

«Non vi ho mai delusi» dichiaro sostenendo uno per uno gli sguardi di tutti. «E non ho intendo cominciare adesso, domani andrà bene è una promessa. Adesso però devo staccare, vuoi continuate pure gli allenamenti e domani vinceremo come sempre».

Non è il mio discorso motivazione più forte di sempre, di solito ci metto più energia e sorrisi incoraggianti, ma le mie parole sembrano averli convinti perché di disperdono di nuovo per il campo e io tiro un sospiro di sollievo. Preferisco non continuare la conversazione con Mitch e vado verso le docce sperando che l'acqua fredda mi aiuti a placare l'agitazione che sento dentro. Ho detto la verità poco fa, deluderli è l'ultima cosa al mondo che farei ma devo ordinare il caos che ho in testa prima e quindi decido di andare in anticipo all'appuntamento con la dottoressa J.

Saluto appena la receptionist e vado a sedermi sul divanetto. Lei mi guarda con una strana espressione, so che di solito mi fermo sempre a fare due chiacchiere con lei, ma oggi non è giornata e credo se ne sia accorta perché non dice nulla a parte sorridermi incoraggiante. Cerco di ricambiare quel gesto solidale prima di prendere il telefono e accedere all'icona del gioco con cui mi piace rilassarmi. Di solito funziona per tenere occupata la mente, ma non stavolta infatti dopo nemmeno un paio di minuti già la mia concentrazione è svanita. Lo rimetto in tasca e chiudo gli occhi sperando, scioccamente, di trovare una soluzione al caos che si muove allegro nella mia testa. Vorrei ci fosse un interruttore per smettere di pensare, perché troppi pensieri decisamente fanno male soprattutto se non portano da nessuna parte.

Distrattamente ascolto il chiacchiericcio di una coppia che è appena entrata, ma apro gli occhi quando sento l'inconfondibile suono della porta della dottoressa J. che si sta aprendo. Sono pronto ad entrare e poi la vedo.

Amber indossa dei jeans azzurri e un maglione bianco a collo alto. Il giubbino blu è appeso alla sua mano insieme alla borsa bianca. È bellissima come sempre e nemmeno se ne accorge. Se penso che a causa di un padre pervertito è cresciuta insicura e timorosa, mi sale di nuovo la rabbia. Sono felice che sua zia l'abbia strappata da quell'ambiente poco sano e mi auguro che la nostra psicologa possa aiutarla davvero.

Non pronuncio una sola parola limitandomi a guardarla eppure lei si gira a guardarmi come se l'avessi chiamata. È brava a mascherare ciò che prova, ma sto imparando a conoscerla e non mi sfugge l'aria seccata che ha di vedermi. Distoglie in fretta lo sguardo come se mi avesse concesso troppo del suo prezioso tempo e raggiunge in fretta l'uscita come se io non ci fossi.

Schizzo dal divano come se dovessi rincorrere una palla in campa e la raggiungo in fretta all'uscita.

«Amber, aspetta».

«Non ho né voglia, né tempo di ascoltarti quindi per favore lasciami in pace» risponde lei senza nemmeno girarsi. Frustrato mi infilo il giubbino in fretta mentre la seguo svelto per le scale, posso comprendere la sua rabbia ma ancora una volta ha completamente frainteso tutta la situazione e forse è arrivato il momento di sganciare la bomba.

In un altro momento farei una battuta sulla sua fretta di andare via, ma stavolta capisco che ha tutte le ragioni per pensare male di me e quando usciamo e sento il vento freddo che mi sfiora il viso capisco che aspettare ancora a parlarle sarebbe totalmente inutile.

«Amber, devi ascoltarmi» insisto sorpassandola e mettendomi davanti a lei per impedirle di compiere un altro passo. «So cosa hai pensato, ma non è come pensi. Dammi cinque minuti e poi puoi ignorarmi per il resto della tua vita d'accordo?»

Leggo l'indecisione nel suo sguardo, la stessa che deve aver provato quando ha visualizzato i miei messaggi senza mai rispondere poi annuisce appena e io mi sento sollevato lasciando andare via il respiro che avevo trattenuto.

«Cinque minuti» ripete come se dovesse accendere un cronometro da un momento all'altro.

«Andiamo a parlare in un posto meno freddo?»

«No» risponde stringendosi le braccia al petto. «Sono quattro minuti adesso, ti consiglio di sbrigarti se non vuoi perdere l'occasione di parlare».

Vorrei farle notare che potremmo prenderci un malanno se restiamo fermi troppo con questo vento gelido, ma capisco che sarebbe tempo sprecato e lascio perdere.

«Marika è venuta a bussare a casa mia circa due mesi fa» racconto dopo un profondo respiro. «E credimi se ti dico che ha cambiato la mia vita in un solo istante»

«Una tua ex che viene a bussare alla tua porta dopo tanto tempo, che storia originale» alza gli occhi al cielo lei. «Adesso mi dirai che magari ha un figlio segreto, un marito che...»

«È mia sorella» la interrompo. Amber resta a bocca aperta dimenticando forse quello che stava per dire e poi mi fissa arrabbiata.

«Stai davvero cercando di rifilarmi la stessa scusa della prima volta? Ti facevo più inventivo sai? Se davvero vuoi farmi credere che...»

«Marika è la mia vera sorella» la interrompo di nuovo. «Ho scoperto di essere stato adottato e che la mia vita è stata una vera farsa fino a questo momento. Ecco il mio grande segreto e il motivo per cui vengo ogni settimana a parlare con la dottoressa J., la mia esistenza è andata in pezzi e tra poco finirò per rompermi in mille pezzi anch'io».

Le iridi azzurre prima infuocate dalla rabbia, adesso mi guardano con intensità come per valutare se stia mentendo, ma non sono mai stato così sincero in tutta la mia vita e lei deve accorgersene perché sospira facendo uscire fuori una nuvola d'aria fredda che fa rabbrividire anche me.

«Forse è il caso che andiamo a parlare in un posto più tranquillo» decide dopo un attimo di silenzio e io annuisco infilando le mani in tasca sentendole di colpo troppo fredde, ma non è colpa della temperatura anzi credo che il gelo che sento dentro ci metterà del tempo per svanire completamente.

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