28- Marcid.

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Marcid: (adj.) withered, incredibly exhausted.

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Lilith.

La settimana trascorsa a Stoccolma fu una delle più memorabili degli ultimi cinque anni, tanto che a distanza di tre settimane dal nostro ritorno a Londra, ancora sentivo la mancanza di quella città. Assaporammo piatti tradizionali svedesi e Andrew aveva chiesto persino la ricetta dei Kroppkakor, quegli gnocchi di patate ripieni di carne e pancetta, a uno dei camerieri.

Kristen scattò una quantità incredibile di foto e in una decina di esse c'eravamo io e Julian, mantenendo una distanza adeguata ma con un sorriso insolito sulle labbra. Visitammo almeno tre musei, tra cui il Museo Vasa, e ogni volta Andrew veniva rimproverato perché i suoi demoni interiori lo spingevano a toccare ogni opera che gli capitava davanti.

Io e il detective, per grande sorpresa degli altri due, non litigammo nemmeno una volta, e i nostri brevi battibecchi si concludevano sempre con una risata o uno sguardo complice. Non parlammo del caso, lui non fece domande e i suoi amici non  accennarono al lavoro nemmeno per un attimo: durante quel viaggio, io non ero la sospettata Lilith Andersen e lui non era il detective Julian Madd. Fu così rassicurante che, una volta tornata alla mia normalità, la realtà mi colpì senza pietà.

«Ricorda di ruotare il tallone del piede dominante e l'anca prima di sferrare un diretto» parlò Nick alle mie spalle, osservando con attenzione i miei movimenti. «L'altra mano devi tenerla davanti al viso per protezione».

Sebbene le informazioni che mi stava dando fossero fondamentali e le conoscessi bene, continuavo a commettere errori uno dopo l'altro perché la mia mente sembrava avvolta da un vortice di pensieri.

«Posso sapere cosa ti passa per la testa, piccola Lilith?» domandò e con un gesto veloce fermò il sacco da boxe.

«Non chiamarmi in quel modo» lo fulminai con lo sguardo e rimasi nella posizione di partenza, in attesa che si facesse da parte.

«Sei distratta».

«Non è vero».

«E invece sì, hai sbagliato un diretto come una principiante e prima hai anche confuso la combinazione braccia-gambe: non hai eseguito il jab» mi rimproverò con aria severa. «Dai, levati quei guantoni e dimmi cosa succede».

La realtà era che nulla di eccezionale stava accadendo, ma ero intrappolata nei pensieri su ciò che avrei potuto essere e vivere se Max Foster non fosse entrato nella mia vita, se mio padre non lo avesse mai incontrato.

Mi faceva male e mi confondeva, mi allontanava da me stessa e non riuscivo più a capire chi fossi veramente. Potevo viaggiare quanto volevo e Julian poteva scrivermi come faceva nell'ultimo periodo, potevo uscire con lui e Kristen per un caffè o fargli avere drink gratuiti al Guys' Night; ma quando ero sola e loro se ne andavano, il peso delle colpe mi schiacciava e le emozioni tornavano a galla, mescolandosi con ricordi dolorosi che non riuscivo a sopportare.

Lasciai cadere i guantoni rossi ai miei piedi, raggiunsi la panca vuota e frugai nel borsone alla ricerca del pacchetto di sigarette. In Svezia avevo fumato così poco che un pacchetto mi era durato un'intera settimana, mentre una volta tornata a Londra ero già al settimo nel giro di tre settimane.

«Allora?» insistette Nick.

Nick odiava quando ci si distraeva durante gli allenamenti; era molto severo su questo punto e arrivava persino a rimproverarti come se fosse un vero e proprio personal trainer di boxe. Era talentuoso, e se avesse avuto le giuste opportunità e se Max Foster non fosse mai entrato in scena, ero sicura che Nicolas Carter sarebbe potuto diventare uno dei pugili più capaci del Paese.

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