2- Hiraeth.

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Hiraeth: (n.) a homesickness for a home to which you cannot return, a home which maybe never was; the nostalgia, the yearning, the grief for the lost places in your past.

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Lilith.

Amavo le giornate cupe, perché mi permettevano di nascondere il mio malumore e la persistente malinconia dietro la scusa del brutto tempo. Le nuvole grigie e la neve, che rendevano difficile anche camminare, sembravano assorbire tutte le mie bugie, la mia infinita tristezza e il senso di non appartenere a nessun luogo.

Londra era città affascinante: grande quanto piccola, rumorosa e caotica quanto calma e silenziosa, soleggiata e piena di vita quanto cavernosa e assente.

Mi strinsi nel maglione beige, un gentile regalo della mia migliore amica, e continuai a osservare le fiamme del camino che danzavano e riscaldavano l'ambiente circostante.

Chissà se, nel calore di quelle fiamme e nel loro rosso avvolgente, avrei potuto redimermi dai miei peccati e ritrovare un senso di purezza che non avevo mai sentito mio, neppure da bambina.
Mi sentivo sporca, lurida, macchiata di bugie; così mi vedevo allo specchio.

Ero bella, non avevo mai avuto grossi problemi di autostima riguardo al mio aspetto esteriore e sapevo di avere un certo fascino, nonostante non avessi caratteristiche fisiche particolarmente insolite o fuori dal comune.

Ma il mio viso pulito, i capelli sempre perfettamente lisci e morbidi, gli occhi felini e le unghie ben curate non avrebbero mai distolto l'attenzione dal marcio che avevo dentro.
Che senso ha essere uno dei libri con la copertina più bella e intrigante, se poi all'interno ci sono una quantità imbarazzante di errori grammaticali e buchi di trama?

Probabilmente era questo che ero sempre stata per mio padre, per la sua compagna, per quelle pochissime conoscenze fatte negli ultimi anni: un libro sui loro scaffali polverosi, con la copertina immacolata ed elegante, i colori neutri e il titolo scritto con un carattere chic, letto fino alla fine solo per dovere e non per piacere, e a ogni pagina storcevano il naso per gli orrori che notavano.

Tra quelle fiamme, forse, i miei peccati sarebbero divenuti cenere e mi sarei sentita bene; ma mi conoscevo: anche se avessi bruciato tutto, avrei peccato il giorno dopo.
Avrei mentito ancora e ancora per preservare la parte più fragile di me, avrei manipolato con il mio sguardo da sirena per ottenere ciò che volevo, e poi avrei alzato i tacchi e me ne sarei andata, sparita, affogata nei miei sensi di colpa.
Nelle fiamme, nel fuoco, dovevo bruciare tutta la mia esistenza, dovevo bruciare il mio corpo e la mia anima; solo allora avrei trovato pace.

Non ero una persona credente; una come me non avrebbe ricevuto né salvezza né perdono. Quindi, anche dopo che la mia carne fosse diventata brace e polvere, avrei continuato ad ardere nelle lingue di fuoco, proprio come i peccatori nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio dell'Inferno di Dante.

La mia migliore amica, Rose, parlava spesso di come circondarsi di persone tranquille le avesse cambiato la vita e aiutata a stare meglio con sé stessa, immersa in energie positive. Non sapevo quanto fosse vera quell'affermazione, considerato che ero la sua amica più intima e vicina, ma una cosa era certa: il problema non erano necessariamente gli altri, ma io stessa.

Le persone come me non potevano rimanere nella tranquillità troppo a lungo; non potevano restare sole con i loro pensieri che martellavano le tempie, senza aver ancora imparato a controllarli.

Nel caos, qualsiasi riflessione, ricordo, sensazione o pensiero svaniva nel nulla.
Non c'era posto per loro quando la confusione era proiettata all'esterno. Non mi circondavo di nessuno; restavo nella mia introversione e solitudine, immersa nel caos della mia stanza e nella musica alta del locale in cui lavoravo.

𝑴𝑰𝒁𝑷𝑨𝑯Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora