23- Oubaitori.

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Oubaitori: (n.) the idea that people, like flowers, bloom in their own time and in their individual ways.

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Lilith.

«Sei contenta, stupida Lilith?» la voce di Eddy arrivò alle mie orecchie in un sussurro colmo di rabbia e frustrazione. «Rispondi, sei contenta?»

Le sue mani afferrarono con ferocia le ciocche dei miei capelli, avvolgendole attorno alle sue dita ancora sporche di sangue, e le tirò con una forza brutale, costringendomi ad alzare il capo e a fissarlo negli occhi. Le lacrime continuavano a scorrere sul mio volto arrossato dagli schiaffi, sentivo le labbra gonfie e il sapore ferroso del sangue nella mia bocca mi risultava disgustoso, ma resistetti al dolore e alla nausea che mi assalivano.

«Smettila di piangere» più trattenevo i singhiozzi, più Eddy sembrava perdere la pazienza. «Sei stata tu».

«No, non è vero» scossi freneticamente la testa. «Non sono stata io!» esclamai disperata, con la gola in fiamme.

Uno schiaffo colpì la mia guancia per la quarta volta, così potente che persi l'equilibrio e caddi a terra, trascinando la sedia dietro di me. L'impatto con il pavimento mi fece gemere, ma quel dolore era insignificante rispetto all'angoscia che provavo. Tentai di rialzarmi, spingendomi sulle braccia, ma fallii quando l'uomo, con tutta la sua furia, premé la suola della sua scarpa sulla mia schiena.

«Tuo padre è morto» disse. «L'hai visto il suo corpo, no? Ed è stata colpa tua, lo hai ucciso tu!»

«Non sono stata io!» urlai.

Con un violento calcio mi costrinse a voltarmi e ad adagiarmi sulla schiena. Poi schiacciò la sua scarpa sul mio stomaco, dovetti soffocare un grido di dolore che tentava di sfuggire. Mi sentivo intrappolata, come se le sbarre di una gabbia invisibile si chiudessero attorno a me. Era come rivivere un incubo, continuamente. Mi dimenai disperatamente nel tentativo di liberarmi, ma il mio corpo da quattordicenne, debole e indifeso, non aveva alcuna possibilità contro i muscoli delle gambe di Eddy, un uomo alto il doppio di me e ben allenato.

«Dillo, dì che è stata colpa tua».

«No...» mormorai. «La macchina... La macchina è esplosa, io non ho fatto niente» le immagini vivide scorrevano davanti ai miei occhi, erano passate solo cinque misere ore e non mi era stato dato neanche il tempo di elaborare ciò che era accaduto.

Ero stata trascinata in questa stanza buia e umida, il luogo che ormai conoscevo come le mie tasche da un anno. Gli spazi angusti sembravano stringersi intorno a me, mentre affrontavo gli sguardi minacciosi di Eddy e degli altri due uomini che mi circondavano. Mi avevano presa a schiaffi e accusata della morte di mio padre;  ero stata colta sul posto, scioccata e impotente, mentre osservavo il suo corpo bruciare vivo all'interno dell'auto. Ancora riecheggiavano nelle mie orecchie le sue urla strazianti e le preghiere disperate, le fiamme divoravano tutto intorno a lui. Io mi sentivo come se fossi stata gettata in un vortice di terrore e confusione.

«Lo hai ammazzato tu» parlò Eddy. «Lo hai lasciato morire, sei colpevole; è colpa tua».

Di colpo, cessai di piangere e di lottare. I muscoli del mio corpo si irrigidirono e le braccia caddero pesantemente sulla mia pancia. Avevo lasciato morire mio padre, non avevo chiamato nessuno, non avevo fatto nulla per fermare l'orrore che stava accadendo. Abbassai gli occhi sulla scarpa dell'uomo, che continuava a premere con fermezza sul mio stomaco, e sentii risalire in gola la misera colazione di quella mattina. Mi mancava il respiro, la testa mi girava. Ero certa che se avesse continuato in quel modo, presto i miei polmoni avrebbero ceduto. Per un istante, sperai persino di morire, di lasciare tutto alle mie spalle. La vita mi sembrava già un'infinità di dolore e paura.

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