2 - Nemesi

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The Loneliest – Måneskin

Solitudine /soli'tudine/ s. f. [dal lat. solitudo -dĭnis, der. di solus "solo"]. - [la condizione di chi è solo, come situazione passeggera o duratura: amare, temere la s.] ≈ ‖ isolamento. ↔ compagnia.

Al mondo ci sono due tipi di persone: i solitari e quelli che non possono fare a meno di rompere il cazzo in compagnia. Io appartengo da sempre alla prima categoria. All'interno di queste due classi, esistono delle sottocategorie: i solitari che fingono di esserlo per ricavarne attenzione e i casinisti che vorrebbero essere solitari. È una regola non scritta, ma al liceo mentono tutti. Nessuno escluso. Si indossa una maschera dalle otto del mattino alle tre del pomeriggio e si finge di essere qualcuno che, in fondo, si disprezza. Si sa da sempre che contano solo le apparenze. E, ammettiamolo, non sei nessuno se non vieni incluso dalle cheerleaders o i giocatori di football. Diventi un emarginato, un perdente.

Al liceo, per quanto mi riguarda, facevo parte di una categoria singola: il solitario popolare. Il silenzioso, bello e dannato. O così venivo etichettato. Me ne stavo per i fatti miei, eppure non mancava ragazzina che mi si gettasse ai piedi, che mi invitasse a feste o... orge. Rifiutavo sempre. Non ero interessato a trascorrere il mio tempo con ragazzini molesti e ubriachi solo perché andava di moda. E, modestia a parte, non avevo nemmeno bisogno di cercarle le ragazze per scopare, c'era sempre qualcuna pronta a succhiarmelo nei bagni.

Il primo anno di liceo è come lo descrivono tutti, nulla di diverso, ecco perché durante solo la seconda ora mi ero ritrovato circondato da sei giocatori del secondo anno intenti a terrorizzare le matricole. Peccato per loro che li avessi atterrati tutti. Nessuno di loro si era più avvicinato e la voce si era sparsa in fretta tra i corridoi. "La matricola che aveva messo al tappeto sei giocatori". Non me ne era fregato un accidente, non era la popolarità a cui ambivo. Desideravo solo essere lasciato in pace, ma loro continuavano a prendermi per il culo senza alcun motivo e così avevo messo in chiaro le cose. Da quel giorno è stato un percorso in discesa e nessuno, per loro fortuna, aveva più osato infastidirmi.

Il punto è che trovare persone leali, vere, con una morale, è pressoché impossibile. Non c'è stata persona, in tutti gli anni di liceo, che mi abbia convinto del contrario. Nemmeno quello che si avvicinava di più alla definizione di amico. Me lo ricordo Evan, mi capita ancora di incrociarlo per strada quando torna a casa nel fine settimana. Non gli ho mai dato confidenze, neanche quando lo mandavo via a suon di insulti, eppure non ha mai mollato. Ammirevole. Per questo credo di aver ceduto a un certo punto, mi sono detto che ignorarlo era la cosa migliore da fare. Che fossimo a scuola o fuori, non mi sono mai preso la briga di stargli dietro; tuttavia, quando veniva tormentato da qualche stronzo, provvedevo a rimetterlo al suo posto. Mi assicuravo che non fiatasse e proseguivo con la mia giornata. Non era molto, niente di quello che faccio lo è, ma era tutto ciò che potevo concedergli. Il mio fastidio e il mio rispetto.

Da quando frequento Princeton, tre mesi ormai, non è cambiato nulla. Navigo ancora nella solitudine. E la gente continua a rompere il cazzo pur di farsi notare.

Non hanno niente di meglio da fare, a quanto pare.

A volte mi domando che diamine ci faccio in questo posto circondato da nient'altro che figli di papà, poi apro il portafogli e guardo la solita foto, trovando la risposta.

Princeton è il sogno americano, chiunque sognerebbe di poter frequentare un posto tanto esclusivo come questo. All'interno dell'Ivy League, è una delle migliori università in ambito scientifico e matematico, ed è qui che conseguirò la specializzazione in matematica applicata e computazionale, costi quel che costi. Ho un piano e intendo seguirlo.

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