5 - Nemesi

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If I Were a Boy - Beyoncé

La bibliotecaria.

L'intrusa di stamattina, trafelata, dai capelli scompigliati e lo sguardo perso è la bibliotecaria. Con quella voce sottile e il tono da maestrina avrei solo voluto chiuderle la bocca e riprendere a studiare, ma dopo averla osservata da vicino? Impossibile. Per quanto fastidiosa, la bibliotecaria ha fascino. Occhi color caffè leggermente allungati, naso sottile, labbra carnose e capelli castani dai riflessi color miele. Fin troppo magra per i miei gusti.

Di solito quelle come lei, che a quanto pare fanno la fame, non le guardo nemmeno. Eppure, con quelle gambette longilinee e braccia a stecchino, resta comunque una delle ragazze più belle su cui abbia posato gli occhi. Forse è stata l'assenza di trucco, il fatto che non si sia comportata come gran parte delle ragazze nel campus o che non si sia ritratta. Sta di fatto che mi è bastato studiarla qualche secondo per appurare tanta bellezza celata.

Col culo poggiato all'auto, una cupra Formentor che non ho ancora finito di pagare, intorno alle cinque, noto la bibliotecaria avvicinarsi a una bici mezza sgangherata dello stesso colore delle sue guance quando si è accorta della mia presenza: rosso. Non ci salta su, sistema solo la tracolla dentro il piccolo cestino, poi mette le cuffiette alle orecchie e si avvia verso sud-ovest, in direzione della stazione ferroviaria. Suppongo sia una pendolare. E che stamattina sia arrivata in ritardo a causa dei mezzi. Se me ne importasse qualcosa, direi che sono dispiaciuto ma così non è. Non si accorge del mio sguardo mentre cammina lungo il sentiero, né delle occhiate languide che tre tizi le lanciano quando lei li supera. Li osservo e, nel momento in cui decidono di agire nel modo sbagliato, seguendola, mi accodo da una certa distanza. Potrei farmi i fatti miei, fingere di non vedere ma al posto della bibliotecaria potrebbe starci Laney un giorno. Lo sanno tutti che le donne non si toccano eppure, elementi del genere, continuano a non capirlo, a imporsi.

La bibliotecaria percorre il tragitto in silenzio, ignara di tutto. In giro non c'è quasi più nessuno, la maggior parte degli studenti si rintana negli alloggi o i bar per rilassarsi in vista della serata. Non importa che sia un lunedì sera, essendo l'ultimo prima delle vacanze, hanno tutti intenzione di andare a qualche festa. Se ne organizzano diverse negli appartamenti. Niente di esaltante ma si beve, si scopa e la gente si diverte.

I tre ragazzi se la ridono mentre la indicano e si fanno più vicini. Accelero il passo e li affianco proprio quando la ragazza si avvicina all'entrata della stazione. Tuttavia, non entra, vira fino alla fermata degli autobus.

I tre moschettieri si voltano nella mia direzione e sgranano gli occhi, sconvolti. Li capisco, fanno bene ad avere paura.

«Che pensavate di fare? Sembra divertente» commento.

«W-White... cosa... che vuol dire?» balbetta uno.

«Amico, sei una leggenda» asserisce l'altro.

«Allora?» Detesto ripetermi ma a quanto pare è necessario.

«C'è questa tipa, lavora in biblioteca ed è sexy da morire, però non degna nessuno di uno sguardo. Abbiamo pensato di presentarci e fare conoscenza, ammorbidirla un po'» ammicca il terzo.

Rilascio una risatina secca che li lascia ancora più sgomenti. Non rido quasi mai, figuriamoci a causa di tre idioti che si credono intelligenti. Immagino abbiano l'intelligenza pari a quella di un'ameba, che siano entrati grazie agli agganci dei loro genitori perché non c'è verso che tra diciannovenni, di Princeton, possano essere così stupidi da molestare una ragazzina solo perché non dà confidenze. «Quindi, fatemi capire, avete intenzione di forzarle la mano giusto per scherzo

«Ma sì, sai come sono le ragazze.» Ridacchia idiota numero uno.

«No, non lo so. Come sono?» domando, compiendo un passo in avanti.

D'improvviso smettono tutti di ridere. Meglio.

«Lo sai... se la credono. A volte bisogna rimetterle al loro posto, magari spaventandole. Niente di serio» gesticola idiota numero due.

«Si scherza» aggiunge subito idiota numero tre.

«Avete sorelle, ragazzi? Madri?» Sorrido, ferino.

Spalancano tutti gli occhi, terrorizzati, tant'è che arretrano.

«Magari posso scherzare anch'io con loro. In fondo, non c'è niente di male, no?» Mi stringo nelle spalle mentre mi faccio ancora più vicino.

«Amico...» mormora idiota numero due.

«Non sono tuo amico» sibilo a un passo dal suo viso. «Spaventare una donna, molestarla solo per un tornaconto personale non è un cazzo di scherzo.»

Lui annuisce, spaventato.

Mi scosto per poter guardare il resto di questi deficienti. «Se vi vedrò ancora lanciarle uno sguardo anche per sbaglio, se vi vedrò fare lo stesso con qualsiasi altra ragazza, che sia dentro o fuori al campus, non vi piaceranno le conseguenze. E no, questo non è un fottuto scherzo.»

Annuisco freneticamente e, senza rivolgermi parola, se la filano.

Indirizzo lo sguardo verso il terminal, notando alcuni bus partire. Non c'è traccia della bibliotecaria, segno che deve trovarsi già a bordo.

Recupero il cellulare e controllo i messaggi. Rilascio un sospiro quando leggo le solite cose. Rispondo e mollo l'aggeggio nella tasca del giubbino. A breve l'ateneo chiuderà per le vacanze natalizie, due lunghe settimane in cui tornerò a Trenton. La voglia è pari a zero; so come trascorreranno le giornate, cosa sarò costretto a subire e non sono sicuro che riuscirò a rimanere ancora a lungo in silenzio. Di solito funziona, fingo di non sentire e proseguo per la mia strada; delle volte, però, vorrei solo sbottare. I motivi per cui non lo faccio sono tre e li tengo ben a mente, li guardo negli occhi ogni volta che varco la soglia di casa.

Stufo, mi avvio verso l'appartamento. Se Levi sia in casa, non lo so, ma spero per lui che il bagno sia libero. Intendo fare una lunga doccia, consumare ogni goccia d'acqua calda e sentirlo inveire quando sarà il suo turno. Così impara a rompermi i coglioni di prima mattina.

Inserisco la chiave nella serratura facendola scattare e apro la porta. La casa è silenziosa, segno che Levi non c'è, sta dormendo o è crollato per l'ennesima volta in mezzo all'ammasso di laptop e cavi con cui sperimenta.

Mi guardo intorno, annoiato, e raggiungo la cucina. L'appartamento è piccolo; composto da una cucina collegata al salotto, due stanze da letto e un bagno, è essenziale per la convivenza di due studenti che trascorrono la maggior parte del loro tempo al di fuori di queste mura.

Scaldo gli avanzi della cena di ieri al microonde e recupero un paio di fette di pane. In frigo, prendo una bottiglietta d'acqua. Sono circondato dal silenzio mentre ceno, ancora in piedi, poggiato al bancone. Devo comunque uscire tra un paio d'ore, inutile perdere tempo.

Mollo il piatto e la posata nel lavandino, laverò tutto domani, e filo in camera. Prima di andare ho bisogno di farmi una doccia. Per quanto freddo possa fare fuori – e si ghiaccia, cazzo – l'intero edificio è colmo di riscaldamenti, di conseguenza in casa delle volte fa persino caldo.

Sto per mettere piede in camera quando la porta di fronte alla mia si apre.

«Ah, sei tu.» Levi rilascia uno sbadiglio.

«Chi altro dovrei essere?» ribatto.

Il biondo si gratta la testa, scompigliando ancor di più i ricci. «Giusto.» Altro sbadiglio. Si avvia in cucina senza dire altro e io mi chiudo la porta alle spalle.

Doccia.

Ho bisogno di una lunga doccia.

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