68. Seven Nation Army

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Per spostarci prendemmo la macchina di Adriano, tutti tranne Andrea che ci avrebbe raggiunto più tardi in moto.

Il locale scelto per organizzare la festa era stato addobbato alla perfezione. Si trattava di una specie di centro conferenze appartenente alla società sportiva ormai in disuso. Era grande e spazioso, un po' spoglio in origine, con le pareti tinteggiate di un color avorio. I ragazzi però avevano riempito tutto di tricolori e drappeggi azzurri, come la maglia dei nostri ragazzi impegnati nel mondiale. Sul fondo della sala c'era un enorme maxischermo mentre sui due lati vi erano enormi tavolate con cibi e bevande varie.

Avevano inoltre creato un angolo bar servito da un barman professionista e noleggiato una maxi postazione con tanto di dj che avrebbe cominciato il suo lavoro al termine della partita. Ne ero sicura, ad Andrea sarebbe piaciuto tutto tantissimo.

Quando finalmente il festeggiato arrivò, nella sala c'erano già una settantina di persone pronte ad accoglierlo. I suoi occhi si illuminarono all'istante e il mio cuore si riempì di gioia. Lo adoravo e non potevo non essere felice per lui.

Mi avvicinai alle spalle di Paolo cogliendolo di sorpresa.

-Siete stati fantastici- sussurrai al suo orecchio.

Lui sussultò inizialmente poi si rilassò voltandosi con un enorme sorriso furbo in viso -e non hai ancora visto il meglio!-

Feci spallucce, quel ragazzo non smetteva mai di stupirmi.

La serata cominciò con l'attesa crescente per il match. Tutti erano in fibrillazione, persino le ragazze presenti in sala. Paolo cercò la mia attenzione e mi incitò a raggiungerlo, il nostro stare vicini era un rito scaramantico, non potevamo interromperlo sul più bello.

Mi fece sedere accanto a lui, prese la mia mano e la tenne stretta tra le sue per tutto il tempo. Non mi parlò un granché, sembrava un commentatore sportivo o uno di quei tifosi sfegatati anzi, quello lo era senza dubbio. Potevo scorgere le sue emozioni dalla forza che imprimeva sulla mia mano. Avrei potuto assistere alla partita ad occhi chiusi ed avrei vissuto ogni istante attraverso la pelle di Paolo. Nei momenti di tranquillità disegnava i suoi soliti cerchietti col pollice o scriveva lettere senza senso sul dorso della mia mano. Di tanto in tanto mi lasciava qualche carezza sul viso e nell'intervallo mi lasciò addirittura posare la testa sulla sua spalla, una concessione non da poco in una serata come quella.

La partita in realtà fu davvero molto emozionante e i tempi regolamentari si conclusero sullo 0-0. Tutto sembrava appeso ad un filo, i nostri erano ben determinati e concentrati ma lo stadio era una bolgia. I padroni di casa ci credevano ma noi dovevamo per forza rompere le uova nel paniere.

E così, quasi allo scadere dei tempi supplementari, quando ormai lo spettro dei rigori stava diventando reale, prima Grosso e poi Del Piero regalarono all'Italia il sogno della finale di Berlino.

Paolo saltò dalla sedia portandosi dietro la mia mano, quando mio malgrado mi ritrovai in piedi mi abbracciò e mi coinvolse nei suoi deliri. Eravamo tutti molto felici e orgogliosi di quei ventitre ragazzi diventati da un giorno all'altro simboli del paese intero. Era strano quel sentimento eppure quell'anno la spedizione azzurra non era partita con i migliori auspici.

Il calcio scommesse e presunti risultati sportivi manovrati avevano macchiato l'onore e l'umore del gruppo, li avevano lasciati partire come appestati ma erano bastate un paio di vittorie per riempire il carro di pseudo-tifosi e finti commissari tecnici.

Io avevo cominciato ad amare quella squadra, quel gruppo da quando li avevo visti con gli occhi di Paolo. Perché qualsiasi cosa, vista con gli occhi di Paolo acquistava nuova luce.

Prenditi cura di meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora