57. Due giorni

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Erano ormai due giorni che me ne stavo in quella stanza.

Volevo stare da sola, non avevo voglia di sentire niente e nessuno. Volevo sparire.

Da due giorni il mio cellulare era finito sepolto chissà dove.

Non lo controllavo da un po' e la modalità silenzioso impediva a quel trillo di riscuotermi dal mio nulla. Se avesse squillato probabilmente lo avrei scaraventato via con tutta la forza che avevo in corpo senza nemmeno controllare il mittente.

Ce l'avevo col mondo. Ce l'avevo con chiunque, con chi non aveva colpa e con chi forse ne aveva troppa.

Quei due giorni non erano stati molto produttivi. Me n'ero stata sul letto a pensare, a dannarmi l'anima con un fiume di ricordi. Con quegli sguardi che non smettevano di scrutarmi, con quelle mani che comunque mi erano rimaste impresse addosso, con quelle parole a doppio taglio che da un lato mi cullavano mentre dall'altro mi ferivano il corpo e, con colpi mortali, il cuore.

Non ero nemmeno riuscita a piangere perché mi sembrava di non avere nemmeno le forze per farlo. Mi sentivo vuota, anzi svuotata, delusa. Era come se un pezzo di me fosse stato staccato con un gesto di una violenza estrema. Ne sentivo persino il dolore fisico, in un punto imprecisato nel mio ventre.

Dopo quella sera avevo smesso di studiare, di mangiare e quasi di dormire. Ogni volta che provavo a chiudere gli occhi le voci nella mia testa si moltiplicavano e un profondo senso di oppressione mi stringeva la gola. Ero costretta a riaprirli all'istante. Mi riaccoccolavo quindi su me stessa e mi lasciavo cullare dalla musica del mio Ipod. Ascoltavo solo poche canzoni, sempre le stesse, quelle che non mi facevano pensare.

Ma non pensare era difficile, era quasi impossibile.

Avevo bisogno di calore umano, di un abbraccio. Di uno solo.

Le mie profonde occhiaie parlavano per me, urlavano la mia delusione nei confronti di tutto quello che mi mancava ma che non avevo avuto modo di conoscere a fondo.

Urlavano quello che la mia voce aveva smesso di dire.

Da due giorni avevo quasi rinunciato a parlare.

Ogni tentativo di mia madre di avvicinarsi, di parlarmi o anche solo di entrare nella mia stanza si era rivelato un fallimento. Sentivo la sua frustrazione, la vedevo nei suoi occhi, nella sua voce stanca ma non avevo la forza per curarmene.

Il vuoto che sentivo dentro mi stava inglobando.

Ero persa.

Nella mia solitudine mi sentivo soffocare ma non avevo alcuna voglia di uscire dal mio guscio.

Anche quella sera sarei rimasta a crogiolarmi sul letto, rinchiusa tra quelle quattro mura, sola con le mie cuffie, con quella musica che mi portava altrove, con i pensieri a vagarmi in testa e con l'angoscia a pesarmi sul cuore.

Pensavo che quella sera sarebbe stata la copia esatta delle due precedenti e invece...

E invece mio padre pensò bene di varcare quella soglia che divideva me dal resto del mondo.

Aprì la porta e senza farsi notare giunse fino al letto. Si sedette accanto a me e, solo grazie al movimento del materasso, lo notai. Sfilai le cuffie e mi voltai a guardarlo quasi infastidita dalla sua presenza, lui sbuffò fuori l'aria sgonfiando le spalle assumendo una strana espressione tra il ferito e l'arrabbiato.

-Vieni di là a mangiare qualcosa?- mi chiese senza espressione.

-Non ho molta fame-

-Vieni almeno di là, nessuno ti costringe a mangiare se non vuoi-

Prenditi cura di meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora