Andrea era al volante, sicuro, le mani tese di fronte a sé. I lampioni accesi si susseguivano rapidamente lasciando il posto di tanto in tanto a semafori lampeggianti. Le strade erano pressochè vuote, poche anime ciondolavano nella notte fredda e umida.
Nell'abitacolo solo silenzio, ognuno era invaso dal proprio flusso di pensieri, ognuno portava dentro il peso di qualcosa.
Il mio peso aveva un nome, si chiamava Paolo. Lo sentivo, dentro di me e alle mie spalle. Quella sensazione non poteva non turbarmi.
Andrea guidò per una decina di minuti, poi accostò e si voltò per guardarmi. -Siamo arrivati-
Feci un cenno col capo e aspettai che qualcuno mi dicesse cosa fare. Ero totalmente imbambolata.
Paolo scese dall'auto e venne ad aprire il mio sportello. Prima di seguirlo mi voltai verso Andrea, come per chiedergli il consenso, o forse perché avevo davvero bisogno di una spinta.
-Tranquilla, io ti aspetto qui, non me ne andrò- disse.
Annuii e scesi dall'auto.
Senza dire nulla seguii Paolo. Lui si incamminò verso il portone di un palazzo elegante.
Invece di suonare al citofono, come mi aspettavo facesse, estrasse delle chiavi dalle tasche e aprì il portone. Si scostò per farmi passare e lo richiuse alle nostre spalle.
Un grande atrio ci accolse, di fronte a noi una cabina ascensore circondata da due imponenti scalinate marmoree che si riunificavano all'altezza del primo pianerottolo.
Mi condusse verso l'ascensore e una volta dentro schiacciò il tasto contraddistinto dal numero 8. Quel vano non era molto grande, era ricoperto da superfici marmoree ricche di venature dalle sfumature rossicce. Un grande specchio occupava la parete posteriore mentre la luce accecante rendeva tutto incredibilmente brillante.
Nessuna parola tra noi, solo un senso crescente di imbarazzo. Io mi guardavo le scarpe, costrizione per i miei piedi che stentavano a starsene fermi, Paolo era chiuso in un luogo che non potevo conoscere.
Non capivo dove stessimo andando ma qualcosa nel profondo mi urlava di fidarmi. Purtroppo di Paolo mi sarei fidata sempre, anche se forse nemmeno lo sapevo a pieno.
Una volta raggiunto il piano desiderato le porte dell'ascensore si aprirono su di un pianerottolo con un solo portone. Non mi meravigliai molto di non trovare alcun nome davanti a quella porta né di vedere Paolo armeggiare nuovamente con quelle sue chiavi.
Aprì la porta, accese la luce e si fermò sull'uscio. Si voltò verso di me porgendomi una mano.
-Vieni- mi disse.
E io in quella parola mi persi. La prima parola da quando eravamo soli.
Sarebbe sembrata insignificante a chiunque, non a me che vedevo quella mano tesa e accogliente verso di me. Non a me che non aspettavo altro.
Presi la sua mano e, per la prima volta da quando lo avevo incontrato, desiderai che quel contatto non fosse poi così tanto innocente. La mia mano bruciava nella sua e piccoli pizzicorii si diffondevano lungo tutto il mio corpo.
Stavo arrossendo ma non avrei voluto mostrarlo per niente al mondo.
Provai a spostare la mia attenzione da quel contatto all'ambiente circostante. Mi ritrovai in una specie di open space, la prima cosa che mi colpì furono i colori o meglio, il colore: grigio. C'erano tante sfumature di quel colore, alcune tendenti al bianco, altre all'azzurro, era rilassante in qualche modo.
In quella stanza tutto sembrava abbastanza approssimativo, c'era un enorme divano posto in un angolo adiacente a due balconi, di fronte a questo un impianto televisivo da far invidia ad un cinema. Lungo una delle pareti c'era una libreria in stile moderno stranamente vuota.
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Prenditi cura di me
RomansaQuando i loro occhi si incontrarono lui si illuminò in un sorriso. Il più bel sorriso che lei avesse mai visto. Un viaggio tra passioni e sentimenti, tra gioie e delusioni. Il tutto visto attraverso i pensieri di una diciottenne alle prese con l'am...