CAPITOLO 6

9K 481 291
                                    

New York era una città maestosa, tronfia e frenetica. Lei era la Grande Mela, la Signora risorta dalle proprie ceneri; in lei si poteva respirare il brulicante e forsennato andirivieni della vita newyorkese e quella folle corsa al quotidiano che a volte non lasciava respiri nelle vite movimentate dei suoi abitanti.

Era proprio lì che era andato Evis Brown, l'Anziano, il padre di Amarok. Aveva preso il primo volo diretto da Detroit e in poco meno di due ore, era approdato nella gigantesca metropoli.

Non appena aveva messo piede su suolo newyorkese la tensione si era ripresentata, più forte di prima. Il compito che lo aspettava era indegno e forse non necessario. Nonostante ciò, non si era tirato indietro dal compierlo, mosso con ogni probabilità da rancori personali non risolti.

Si era imbucato in una delle undici linee della metropolitana e pazientemente aveva atteso di raggiungere l'Oculus di Calatrava. Non ci era mai stato ma aveva seguito la sua costruzione alla tv e ne era rimasto affascinato se non addirittura sedotto.

Una volta sceso dal mezzo e superati i tornelli e la sicurezza, l'Oculus si estendeva in una magnificenza di bianco. Uno dei più grandi centri di trasporto internodale della città.

Era rimasto talmente colpito dalla sua struttura che ne aveva perfino studiato a tempo perso la planimetria. Essere lì, nella sala centrale di quel mastodontico edificio, lo faceva sentire piccolo e insignificante.

Si fermò sollevando lo sguardo esterrefatto e seguì con gli occhi i cinquanta metri di altezza delle volte in vetro, sorrette da insolite strutture in acciaio che davano allo stabile una particolare forma futuristica.

In quell'immobile il bianco faceva da padrone, rendendo l'ambiente asettico e luminoso. Le vetrate facevano filtrare la luce solare creando giochi di sfumature e colori.

L'enorme forma di oculo e le fasce di pannelli in acciaio in realtà gli ricordavano una gigantesca cassa toracica. A vederlo così, gli sembrò di stare dentro lo scheletro della pancia di una balena.

Si sentì intimorito da quella imponente presenza e restò incantato per diversi minuti, saltando con lo sguardo da un negozio all'altro e seguendo la scia delle scale mobili che salivano a vari piani dell'edificio.

Con una scossa del capo si riprese da quel torpore, tipico di chi non frequenta spesso luoghi simili. Subito si spostò verso le uscite, schivando la folla incontrastata che fluiva come un fiume in piena verso tutte le direzioni. Un gruppo di turisti gli ostruì il passaggio, bloccandosi dopo un vociare estasiato alla vista di quel panorama. Evis accennò un sorrisetto divertito e approfittando di un buco fra una compagnia e un'altra sgusciò tra le porte scorrevoli.

Quando fu fuori dall'edificio un pungente e rigido vento gli graffiò le guance.

Rinserrò la presa sul trench imbottito e avanzò a passo sostenuto. Sapeva perfettamente dove doveva andare. Non ci era mai stato prima d'ora ma tutti i sovrannaturali sapevano che se c'era un problema serio, là era il posto in cui l'avrebbero risolto.

Passò rapidamente davanti alle due vasche memoriali e con la coda dell'occhio le osservò con riverenza. Restavano lì, fiere nel loro maestoso tributo. Tanto belle quanto dolorose.

Erano delle grosse voragini che con un ingegnoso condotto facevano scorrere l'acqua nei buchi centrali: dei giganteschi vortici che inghiottivano tutto senza pietà. Quei due immensi buchi rappresentavano anche i cuori dei newyorkesi che, dopo l'attentato dell'undici settembre, non erano più stati gli stessi. Un dolore costante e perenne continuava a serpeggiare silenzioso in quella città. Si muoveva fra i suoi abitanti e proprio lì, gridava il proprio dolore; era inciso su ognuna delle settantasei placche di bronzo che facevano da cornice alle vasche. Un dolore fatto di nomi, di persone, di morte.

ARTIGLI - BACIO SELVAGGIODove le storie prendono vita. Scoprilo ora