Quattro

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Dopo quello che vi ho appena detto, potrete immaginare che all'esposizione dei quadri di Van Dyck a Torino, che è stata allestita a soli due isolati da casa mia, non avrei mai potuto resistere. Sono riuscito ad andarci tutti i giorni in cui la mostra è stata aperta al pubblico. Evito di dirvi quanti siano stati i giorni consecutivi, ed al personale dei Musei Reali non è certo sfuggita la mia faccia.

Ne sono rimasto comunque un po' deluso. Non si è trattato infatti di un'esposizione ampia come avrei pensato, e preferito. Il pittore, ed il periodo storico, avrebbero meritato uno spazio più ampio, ma il business delle mostre itineranti non è semplice da organizzare ed è molto costoso. Tutti aspetti che conosco benissimo.

Nelle ore in cui non lavoro, infatti, praticamente non faccio altro che documentarmi e studiare ogni elemento che ruota intorno all'arte, al suo business, alle sue regole. Una passione così viscerale da farmi dimenticare quasi tutto ciò che mi circonda.

Ed è stata questa mia passione, spinta in modo a dir poco eccessivo, il punto fondamentale di quanto mi stava per accadere: le visite all'esposizione di Van Dyck erano state notate e le mie permanenze nei musei registrate, ma di questo fatto non ne ero ancora consapevole quel giorno, né tantomeno avrei mai potuto immaginarlo.

Così, mentre ormai ero a pochi metri da casa mia, tormentato da quell'esigua macchia di caffè sulla cravatta, e tutti questi pensieri affollavano la mia mente condensandoli in un unico grumo, proprio quando fui davanti al civico di casa mia, non mi sentii bene. Il disagio che prima mi aveva soltanto sfiorato, ora si fece palpabile e sembrò risucchiarmi dallo stomaco. E non era dovuto alle mie manie, né a causa delle medicine per controllare i miei nervi, quelle non le prendevo da tempo, e neppure per tutti quei cambi di "scena" che ineluttabilmente avevo soltanto in parte domato. C'era un stato interiore fisico che cercava in me un varco per esplodere e mi sentivo prossimo ad essere spalmato sulle pietre d'angolo dei palazzi che mi parvero appiccicarmi addosso. Soffocavo.

E non solo.

Un odore sgradevole mi chiudeva le narici, sapeva di lercio dei barboni, di sudicio delle città, di sporco: una nausea ingestibile ma anche una punta di...? Non saprei, una fragranza che stonava in quel sozzo.

Ebbi un cedimento, ma non seppi ricondurlo ad uno stato preciso di salute perché in me non scattò il presentimento quanto avrebbe invece dovuto data la mia professione. Ed allora continuai a camminare cercando di ingannare tutti gli odori, contenendo quella seccatura il più possibile e senza farla esplodere.

Ma ad un tratto non mi fu possibile.

Cosa mi stava accadendo?

Qualunque cosa fosse, era troppo tardi per reagire.

Prima una vertigine, poi mi si piegarono le ginocchia ed in un niente, briciole di tempo, mi trovai accovacciato a terra. Un conato salì dal fondo del ventre, ma non vomitai. Il dolore fu terribile. Un ago piantato con forza nelle carni.

Poi finalmente capii.

Era un infarto bello e buono. 

A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora