Cinquanta

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Dopo un ultimo silenzio, negai ulteriormente quella che ormai era per loro invece una chiara evidenza dei fatti. A quel punto mi attesi un ulteriore confronto, invece, contro le mie aspettative, fui rilasciato poco dopo.

Era solo questione di tempo, mi dissi lasciando la Questura alle mie spalle. Tempo e, forse, testardaggine. La mia ma anche la loro. Io avrei continuato a negare, ma loro non si sarebbero arresi facilmente.

Quella fotografia era la spiegazione di tutto.

Camminando verso casa, mi tornavano alla memoria i fatti che avevo rimosso e nascosto dentro di me. Molti, moltissimi, anni prima ormai.

Tutto mi diventava chiaro. "Cristallino", mi dissi mentalmente ricordando una scena di un film.

Superai alcuni isolati, appesantito nei passi, e lasciai semplicemente scorrere i pensieri, guidati da quella connessione che aveva ripreso a funzionare dopo anni di interruzione.

Ora che quei ricordi erano diventati impossibili da ricacciare ai margini della mia memoria, dove per anni, e non sapevo più quanti, erano rimasti a giacere privi di luce, da dove sarei dovuto ripartire?

Uno schiocco involontario della lingua mi sorprese e mi accorsi di non essere completamente in controllo del mio corpo e del mio stato d'animo.

Mi voltai con un moto di imbarazzo, temendo che qualcuno mi stesse osservando. Mi sentii sgretolare.

Per non cedere, capii che dovevo concentrarmi unicamente su quanto ancora avrei dovuto ammettere a me stesso. Da dove ripartire, dunque, ripetei a me stesso. Perché il punto di vista corretto non era affatto banale, né secondario se volevo giungere preparato al bivio che vedevo di fronte a me e conoscere la strada giusta da percorrere.

Almeno questa volta, mi dissi.

Almeno questa volta.

Mi sentivo come su un ponte che univa due sponde avverse, da una parte la mia vita, o almeno quello che credevo fosse mia, dall'altro la vita che era stata e che avevo, sì, dimenticato.

E, come se non bastasse, come se il fardello non fosse già sufficientemente pesante, quel ponte che ero io era stato minato da genieri preparati e determinati ad eseguire l'esplosione così cara e fondamentale per sentirsi realizzati nella propria professione. Non bastava quindi decidersi da che parte andare del ponte, dovevo anche sperare che non crollasse sotto i miei piedi.

Guardai l'orologio, sebbene il tempo al momento non significasse molto. Lo scintillio del quadrante mi parve l'opposto dei ricordi sbavati che affollavano la mia mente: le lancette continuavano il loro moto nel futuro, che diventava immediatamente presente, mentre io avrei dovuto ricominciare dal passato.

Guardai le mie mani tremare e dovetti appoggiarmi con un ginocchio a terra per respirare.

E se analizzare le cose che aveva fatto nella mia vita mi sembrava più giusto rispetto a quelle non fatte, non ero certo che fossi in grado di darne un giudizio.

E se non fosse andata in questo modo? E se non avessi responsabilità? Responsabilità dirette?

Evitare di ribellarsi al pensiero di trovare scuse esterne al mio operato, era da sempre un percorso tortuoso.

Capii allora che avrei dovuto focalizzare i miei sforzi su un punto di partenza chiaro che mi permettesse di issarmi su una pietra d'angolo, e lastricare una strada che mi conducesse davanti a quel bivio con un'aspettativa consapevole. Giusta o sbagliata fosse stata la sponda del ponte che avrei raggiunto, una volta davanti alla scelta, cioè se continuare a mentire a me stesso oppure riemergere dalle acque melmose di quell'alveo che era stata la mia vita, avrei finalmente compreso su quale opzione puntare.

Forse, liberandomi.

Ed eccole, definita la strategia, le risposte.

Avevo nascosto a tutti, almeno per lunghi tratti, la mia sofferenza. Lasciandola appena pungente sotto pelle, spargendo soltanto qualche piccola gocciolina di sudore quando la pressione, e la frustrazione, cresceva in me pericolosamente. Soltanto piccoli sfoghi, lievi, impercettibili, il tempo necessario per lasciare defluire l'ansia. In alternativa, c'erano state sempre le medicine.

E la noia.

Quella aveva contraffatto ogni mia intenzione.

Un elemento della mia vita che si presentava con eccessiva frequenza. Sintomo maldicente della depressione.

E se fosse nuovamente arrivata a prendermi, per pigrizia, più che per mancanza di coraggio, mi sarei lasciato sopraffare.

Iniziò a piovere. Alzai lo sguardo istintivamente verso l'alto e la pioggia inghiottì per un momento i miei pensieri. Finalmente dopo cinquanta giorni di Sole, le nuvole avevano ripreso a considerare la mia città dai profili confusi dallo smog incassato in ogni angolo come una bestia paziente.

Mi ero distratto.

Spesso mi accadeva, e consideravo questa mancanza come un presagio del peggio. Senza sbagliarmi sulla previsione.

Black out continui anche nei momenti meno opportuni.

Il tutto durava pochi secondi appena, ma determinanti per sconnettermi dal mondo. In quei momenti, la mia mente fuggiva in luoghi misteriosi.

Poi, con la stessa velocità con cui avevo divagato perdendomi, ritornai a pensare alla fotografia.

Ed il motivo per cui io ne conoscessi tutti i dettagli era semplice: l'avevo scattato io quella fotografia.

Avevo immortalato quella sera con una sola istantanea, ma poi ne avevo fatte alcune copie, e le avevo distribuite nelle riunioni a cui avevo partecipato come se fossero trofei.

Tutti vi partecipavamo sotto falso nome, incontrando vari reparti di combattenti. Combattenti, perché è così che si facevano chiamare.

Avevo poco meno di venti anni, così come Michele, mentre sua sorella ne aveva quindici più di me.

Nella pazzia di quegli anni di piombo, una nota dissonante di quell'epoca non era mai venuta alla luce: la mente criminale che aveva innescato una delle brigate più sanguinose faceva capo a Torino, e nella Torino "bene", non nei circoli operai, proprio all'interno di quella ricca borghesia che veniva combattuta dai movimenti delle Brigate Rosse. Una "Torino" che conoscevo ancora poco, ma che già frequentavo da qualche anno.

Nel ripensare a quella fotografia che, senza volerlo fu l'atto conclusivo di quel gruppo, mi parve impossibile aver realmente dimenticato tutto. Erano passati più di vent'anni.

Volli far venire a galla tutto quanto avevo sommerso, lasciando la spiegazione dell'oblio in un secondo tempo.

Ricordai allora i miei passi in questa città come se non fossero miei. Camminavo sempre con la testa bassa, lo ricordo bene, non come adesso, guardandomi le punte delle scarpe. Ricordai i sacchi di iuta, fradici di acqua dopo essere stati dissotterrati per estrarvi le armi per un'azione crudele. Ricordai gli ordini impartiti, chiari e militari. E l'ossessione degli sguardi che annuivano in risposta. L'odio inspiegabile della gente verso la loro gente. I comizi utili soltanto per essere oggetto di altri assalti. Sembrava fosse come prima della guerra, soltanto molto più in piccolo ma altrettanto doloroso. Tremavano i muri per gli scoppi, e i cuori delle persone per gli spari.

Chiunque esercitasse un potere, privato o nello Stato, poteva essere un bersaglio.

E noi, a quel tempo, eravamo pronti a decidere chi.

A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora