Due

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Alcuni mesi prima.

Spero mi capiate se dico che, nel mio stato attuale, sia complicato ricordare tutto perfettamente, ma vorrei tentare di spiegare. E per farlo, devo portare la mia vita indietro di alcuni mesi, quanti non saprei con precisione, accontentatevi che siano "alcuni".

Ogni mattina alle sette in punto esco da casa e mi reco al bar nella Piazza del Conte Verde, oppure, ma più raramente, mi allontano di poco inoltrandomi in via Garibaldi. Non sono luoghi qualunque, qui è dove è nata l'Italia, qui è dove passava il Re, a poche strade dalla Casa Reale, dal Duomo e dalla sua cupola meravigliosa: Torino, la mia città.

Non che mi senta particolarmente patriottico, né torinese, né italiano, dovrei meglio valutare questo aspetto, comunque, senza troppo tergiversare, sono legato ai luoghi in cui vivo. Ma a questo punto non è più importante.

Quella mattina scelsi il bar nella piazza, il "mio", ma lo trovai chiuso. Poco più avanti, in direzione del Comune, sotto i portici, c'è un altro locale. "Il ripiego". Optai per quello, evitando di allontanarmi per via Garibaldi. I nomi dei locali sono frutto della mia fantasia, nel secondo ci vado appunto soltanto per ripiego quando il "mio" è troppo affollato. O chiuso, come capitò quel giorno. Avevo dimenticato che il servizio bar sarebbe stato fermo per due giorni, me ne ricordai soltanto in un secondo momento. Il proprietario, conoscendo ampiamente la mia scarsa adattabilità alle notizie inaspettate, mi aveva avvisato per tempo e, conoscendo la mia maniacale abitudinarietà che mi portava al suo locale, si era anche scusato. Non che fossi ospite così gradito, ma di certo neppure poco simpatico.

In tutti i casi non avevo scelta, avrei dovuto optare per il secondo bar. Ero già vestito per la giornata di lavoro in Clinica, una delle migliori di Torino, chiaramente. Un vestito intero blu scuro, una camicia bianca intonsa, una cravatta blu, le scarpe nere inglesi che avevo comprato in negozio. Impeccabile: nella mia valutazione. Eccessivo e superato: in quella dei giovani che incrociavano ogni mattina il mio passo. E poi, per oliare l'ingranaggio del vostro pregiudizio, questo mio modo di vestire puntiglioso, e noioso, è un "cliché" perfetto. Non trovate?

Il caffè del "ripiego" era bollente, aspetto a dir poco fondamentale, ma non c'erano gli stessi biscotti del "mio" bar, quelli che adoro.

Pagai ed uscii.

Anzi, esattamente, prima salutai, poi uscii.

Non faceva freddo.

Camminando, mi annodai la cravatta, stringendo il nodo più stretto. Per farlo, fui obbligato ad appoggiare la borsa a terra, per poi riprenderla. È un gesto rituale che faccio in continuazione, ogni volta che cambio scena. Da una scena all'altra ne sento il bisogno.

Quali scene?

Cerco di spiegarmi, ma vi avverto che non sarà semplice: quando entro o esco da un negozio, cambio scena; e così quando termino una visita in clinica, oppure, più banalmente, quando fornisco un'indicazione ad un passante; a volte perfino anche dopo aver salutato una persona, credo di aver cambiato scena. E ancora: quando termino una telefonata, oppure quando scrivo un appuntamento in agenda. Ogni azione che compio è abbinata ad un cambio di scena, ed ad ogni cambio di scena, stringo il nodo della cravatta.

Continuo?

L'elenco è lungo. La conclusione di un lavoro, un colloquio che giudicavo difficile, una discussione in famiglia: io giudico tutti questi "inizi" e queste "fine" come un cambio di scena.

Come se la mia vita fosse un continuo intervallare di piccoli eventi che iniziano e che terminano in piccole certezze. Ed allora, ad ogni scansione del tempo, che si apre in un inizio e che si conclude in una fine, io stringo più forte il nodo della cravatta.

Una mania assurda.

E non è l'unica, meglio lo sappiate subito, né ho delle altre più o meno pericolose.

Mi sistemo il bordo dei pantaloni più volte durante il giorno con un movimento secco delle braccia che scendono e che stirano il bordo. Sfioro ripetutamente il colletto della camicia. Controllo maniacalmente l'orologio, il telefono, la borsa. Ho un'agenda nera, sempre la stessa da anni. Un quaderno con pagine bianche e la copertina nera della stessa marca dell'agenda. La custodia del telefono è nera e la penna che utilizzo è dello stesso colore. Così, impilando la biro sul telefono, il telefono sul quaderno ed il quaderno sull'agenda, ottengo un insieme perfetto di oggetti neri.

Capito il concetto?

Non sono pazzo, ma lambisco la zona.

Soltanto che quel giorno, quando uscii dal bar soddisfatto del caffè, nel stringere il nodo della cravatta, notai un piccolo difetto nel tessuto. Una nota di colore diverso nel blu profondo della seta.

Una piccola, ma visibile e detestabile macchia. Da dove veniva quella stonatura?

Non ebbi il tempo, né la voglia di pensarci, ma dovetti necessariamente sistemare la cosa. Tornai allora furiosamente sui miei passi, consapevole che sarei giunto al lavoro in ritardo, arrabbiato per quell'insignificante avvenimento, camminando velocemente verso casa, con lo scopo chiaro di indossarne un'altra. Come dopo un alterco. E tutto ciò creava un problema non di poco conto: un cambio di scena! E per di più un "qualcosa" di non voluto e... lasciamo perdere... credo che ormai vi siano chiare le mie schegge di pazzia.

Una cosa da nulla, penserete.

Tornare a casa, per una piccola macchia.

Vi sbagliate, perché quella macchia mi ha cambiato completamente la vita.

A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora