Diciotto

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La mattina seguente, contro il parere del medico, lasciai l'ospedale. Presi le poche cose che avevo e lasciai la stanza sotto gli sguardi perplessi delle infermiere. "È uno strano", sentii alle mie spalle, "Davvero, strano". Non ci badai, avevano ragione.

Presi un taxi. Il tragitto dalle Molinette al centro città non è molto lungo ma qualche ostacolo dovuto al traffico mi permise di rimandare l'appuntamento con la mia famiglia, alla quale avrei dovuto molte spiegazioni che, inutile dirlo, non avevo alcuna voglia di dare.

Ammetto, e non ritornerò su questo argomento, che dissi un'altra bugia in famiglia: "Vado qualche giorno a Barcellona per riprendermi. Ho bisogno di restare da solo. Torno presto. Vi chiamo quando arrivo".

In verità, le menzogne erano molteplici: mi ero già ripreso, non avevo alcuna intenzione di stare da solo, non sarei tornato presto (non ne avevo la minima idea), non avrei chiamato al mio arrivo (il mio telefono lo lasciai volutamente spento nel mio armadio).

Era chiaro che entrambi non avessero creduto ad una sola delle mie promesse, rassegnati a quello che ero sempre stato: quasi un estraneo nelle loro vite. Così, poco prima di lasciarli, parlai con mio figlio accertandomi che mia moglie non avrebbe potuto ascoltarci, e gli dissi: "Tu vai su Skype ogni tanto...". Lui capì che lo avrei chiamato in quel modo e mi sorrise complice.

Non partii immediatamente, arrivai all'aeroporto di Barcellona dopo tre giorni dal mio ritorno a casa. Erano stati necessari per decidermi a farlo, spiegarlo a mia moglie e a mio figlio, per acquistare il biglietto del volo, per salire sull'aereo ed atterrare ad El Prat. Avevo catalogato ogni singolo evento.

Appena atterrato, focalizzai i miei pensieri sullo scopo del mio viaggio: capire. E per farlo avrei dovuto trovare Jaspreet.

Dalla mia parte avevo soltanto due elementi: la mia determinazione ed un numero di telefono da chiamare.

Quel +3493 era infatti seguito da altre cifre e non rimase che tentare. Ancora all'interno dell'aeroporto, acquistai un telefono con una numerazione spagnola. Pagai in contanti. Lo accesi e lo configurai in modo che fosse disponibile soltanto il traffico voce ed impedendo ogni comunicazione dati e localizzazione geografica. Il tutto mentre ancora stavo pagando alla cassa, tanta era la tensione che avevo trascinato con me dall'Italia. Il negoziante sbuffò nel vedere in me quella frenesia, ma non poté neppure lontanamente immaginare la mia vera motivazione.

Due squilli.

Una voce femminile.

Era lei.

"Sei sola?".

"Sei tu?".

"Sì, sono Andrea".

"Alle quattro, davanti all'ingresso sud della Sagrada Familia. Ti cerco io, tu fatti trovare lì".

"Va bene".

"Ok, ora abbandona immediatamente il telefono".

"Ma è nuovo. L'ho appena acquistato".

"Tu fallo e basta".

Lo feci e cercai un taxi.

Non parve possibile averlo fatto. Mi diressi all'uscita di El Prat muovendomi velocemente. Appena fuori, constatai che una certa fila di persone era in attesa, così dovetti attendere qualche minuto per il mio turno.

"Sagrada Familia".

"Bien", fu la laconica risposta del tassista.

Partì veloce verso la città.

Troppo veloce, superava le altre auto con eccessiva aggressività. Entrò nella Diagonal, la strada che taglia in due la città come una fetta di pizza, ed ancora non avevamo scambiato neppure una sola parola. Meglio così, pensai. Approfittando di un piccolo ingorgo, dovuto ad un autobus di turisti che aveva sbagliato strada, chiesi all'autista del taxi se avesse con sé una mappa della città.

Lui attese il primo semaforo rosso prima di rispondermi sì. La prese dal cruscotto e me la mostrò indicando il luogo in cui ci trovavamo in quel momento. Disse qualcosa in spagnolo, o forse in catalano, per dirmi che ci avremmo messo poco tempo. Ma io non avevo alcuna fretta, obiettai, ma lui non comprese.

Guardai l'orologio: erano passati pochi minuti dopo l'una e trenta. Mi richiusi nel silenzio di prima.

L'auto proseguì. Un semaforo rosso.

Guardai fuori, c'era il vento che frustava una bandiera della Comunità Catalana. Dei bambini correvano e delle madri li imploravano di fermarsi. Fuori da un negozio si era formata una piccola fila, provai a guardare l'insegna per curiosità, ma il taxista ripartì con un sobbalzo. Lo odiai.

Da destra, cambiò corsia per due volte evitando un veicolo più lento, poi dovette nuovamente desistere ad una rotonda che si era ingolfata. Non suonò il clacson, almeno quello, pensai.

Quell'andatura frenetica mi impediva di concentrarmi su quello che avrei dovuto fare. Forse era un bene, non sapevo come comportarmi e pensarci non mi avrebbe fatto bene.

Pensare poco, mi dissi. Agire, osservare, ma non di pensare, o meglio, non pensare alle possibili conseguenze di quanto avrei affrontato. Rimanere sullo status quo, senza temere gli attimi successivi, focalizzare il presente, al massimo il prossimo futuro a cui avevo imposto un orizzonte di un'ora al massimo. "Step by step", mi dissi ripescando quella comune espressione inglese di chi non ne sa nulla di nulla di cosa accadrà e si gonfia dietro a quel passo alla volta da compiere. E certo di non resistere alla tentazione di guardare oltre, e quindi di essere flessibile rispetto al futuro, dovetti coniare un nuovo neologismo, "più prossimo", per non rischiare che quel "prossimo" fosse già troppo avanti del "presente" e ciò mi obbligasse a pensare alle conseguenze. Che non ero certo di saper affrontare.

Così, con il sudore che risaliva dalle spalle, ripensai al mio amico Mario, lo psichiatra, a cui, ma lui non poteva saperlo, dovevo la traccia che stavo seguendo, e ricordai di riflesso, che in psichiatria il neologismo è abbinato alla schizofrenia e dunque, visto che, come sapete, già lambivo quella zona e spesso mi inoltravo in schegge di pazzia, me ne tenni ben alla larga accontentandomi del termine "prossimo" concludendo definitivamente l'argomento.

Tutto utile a far passare i minuti.

Riguardai l'orologio.

Mancava ancora molto al mio appuntamento e già ero prostrato e stanco.

Per mia fortuna c'era il taxista a distrarmi: il suo avanzare nel traffico era decisamente eccessivo, e a me inutile. Provai allora ad inviare segnali di disagio all'autista, ma questi ignorò ogni mio tentativo.

"Le ho detto di rallentare, la prego".

La reiterazione della mia richiesta non aveva sorto effetto. E non era per via della lingua: si capiva che mi ignorasse volutamente. Così, al successivo semaforo rosso, scesi dal taxi all'improvviso, buttandomi letteralmente fuori e, visibilmente irritato, lasciandogli quaranta euro sul sedile posteriore.

Lui scese dall'auto, mi invitò a rientrare e senza alcuna gentilezza, ma io mi allontanai con la sensazione sgradevole che mi accompagnava da quando ero salito su quell'auto. E preso da quello soltanto, non mi resi conto di essere nel bel mezzo alla carreggiata della Diagonal.

Un'auto che sopraggiungeva si arrestò per evitarmi, una frenata decisa e rumorosa.

Istintivamente mi bloccai.

Feci un passo indietro e ciò bastò ad evitare l'impatto.

A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora