Venti

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Stentavo a reggermi sulle mie gambe. Mi mancava il fiato. Aveva ragione lei, l'ispettore Grimaudo mi aveva avvertito e non le avevo creduto. Ora era tutto diverso. Due ragazzi mi si avvicinarono per chiedermi se avessi bisogno del loro aiuto, non risposi e loro si allontanarono. Avevo bisogno di entrare in un bar, sedermi e far depositare le emozioni. Riuscii ad indirizzare i miei passi verso il bar dell'isolato di fronte, ma anche la vista era annebbiata e per raggiungere il bar era necessario attraversare una via ampia e larga e, in quelle condizioni, mi sembrava di dover compiere un'impresa.

Attesi il semaforo verde e spinsi in avanti le gambe obbligandole ad obbedire. Un passo, due, tre, ancora tre, due, uno. Funzionava: concentrandomi sui numeri, ero arrivato dall'altra parte del corso. Ancora pochi passi, mi dissi. Il cuore non sembrava essere d'accordo, ma alla fine arrivai al locale.

Aprii la porta, era vuoto o quasi, mi sedetti al primo tavolino vicino alla finestra ed invitai il cameriere ad avvicinarsi con un gesto della mano. Chiesi dell'acqua e la possibilità di fare una telefonata, pagando, specificai.

Il ragazzo mi guardò con un certo sospetto, ma ebbi la prontezza di spiegargli di aver perso il cellulare, che sicuramente mia moglie mi stava cercando, e che in effetti non mi sentivo molto bene. "Le pago quello che vuole per questo, per favore", conclusi.

Sebbene avessi parlato in italiano, lui colse l'essenziale e, mi concesse nelle mie mani il suo cellulare: "Por favor", disse spiegandomi che per la telefonata non avrei dovuto pagare nulla.

"Zucchero?", mi chiese sporgendomi un piccolo contenitore con delle zollette e chiedendomi se volessi anche un caffé.

Risposi di sì, ma tremando e sussurrando. Lui mi guardò perplesso e mai, per nessuna ragione, avrebbe potuto immaginare la ragione del mio stato d'animo.

"Vuole dello zucchero?".

"Sì, grazie".

"Prenda questa, prego".

Frasi banali, ma determinanti. Erano state quelle le parole pronunciate quel giorno nel bar a Torino.

Presi il telefono del cameriere che mi aveva lasciato sul tavolo, composi il numero di telefono leggendolo dal biglietto da visita dell'ispettore Grimaudo.

"Pronto?", la voce dubitativa di chi riceve una telefonata dall'estero da un numero sconosciuto.

"Sono Andrea Bonelli".

"È lei? Da quale numero mi chiama?", mi disse, forse con eccessiva velocità, ma parole di circostanza sarebbero state inutili perdite di tempo.

Io provai a fare altrettanto, ed andare dritto al punto, ma sebbene avessi abbandonato i cambi di scena, abbandonato l'uso delle cravatte, ostinarmi sull'uso di determinate parole, e chissà quante altre cose che in quel momento non mi rendevo neppure conto, non ci riuscii e prevalse in me l'emotività di sempre.

"Non so più che da parte stare, adesso".

"Prima lo sapeva?".

"Prima?".

Aveva già capito, e aggiunse: "Quando le ho raccontato delle analisi e dell'avvelenamento, non è sembrato stare dalla mia parte. È questo che voleva dirmi, Bonelli? Mi ha chiamato soltanto per scusarsi? Tutto qui?".

Sapeva che c'era dell'altro.

"Ha ragione, prima non stavo dalla sua parte".

"Ed ora sì?".

"Ora sì".

"Perché?".

Sentendo che la ragione che mi spingeva a chiamarla non si fosse ancora del tutto materializzata, sono certo che temesse una mia rinuncia, un cambio d'idea improvviso che mi avrebbe fatto interromper quella telefonata. Ed infatti era quanto provavo. Ne temevo le conseguenze. Perché parlarne con lei sarebbe significato fare un salto definitivo nella realtà, in quello che avevo ritenuto inimmaginabile: avevano realmente tentato di uccidermi.

"Ha ricordato come l'hanno avvelenata? È così?".

"Sì. Il ricordo è affiorato senza volerlo, proprio come mi aveva detto lei".

Il cameriere mi stava guardando perplesso. Io abbassai il tono della voce.

"Ero al bar, il Ripiego...", le dissi spiegandole il significato del nome, tanto valeva dire tutto a questo punto, "... ed avevo ordinato un caffè, solo quello, come faccio sempre ogni mattina. Stavo per prendere lo zucchero dalla coppa sopra il bancone, quando un uomo mi ha anticipato in modo deciso e mi ha offerto la bustina che aveva in mano, dicendomi che a lui non sarebbe servita. Ora che ci penso, mentre prendevo la bustina dello zucchero sentii sopraggiungere in me un'energia negativa che tentava di impedirmelo, una morsa invisibile che mi tratteneva nel farlo ma, per non sembrare scortese con quell'uomo, dominai quell'impulso salvifico accettando l'offerta".

Ci fu un silenzio dall'altra parte del telefono che servì all'ispettore per innescare i suoi pensieri da poliziotta, capaci di scavare dove altri non avrebbero mai guardato. Io scambia quel silenzio per incredulità.

"Mi sembra poco", rispose inaspettatamente.

"Al contrario. Ecco come è andata: io che accetto quell'invito a servirmi dello zucchero; io che apro la bustina e, sbadatamente, scusandomi, ne verso a terra una piccola quantità; l'uomo che sembra essere accigliato nel vedere cadere a terra quella dose di zucchero; io che verso il contenuto della bustina nel caffè; io che poso la tazzina ormai vuota nel piattino. E soprattutto, il barista che osserva stupito ciò che rimane dell'incarto e commenta che non fosse uguale ad una delle loro, ma quelle parole le disse con così, dandogli poca convinzione, solo fiato, non corpo, e che nessuno, neppure io, sembrò dare importanza. E soltanto adesso mi rendo conto che le parole del barista mi furono silenziate, perché l'uomo, che mi aveva dato lo zucchero, disse subito qualcosa parlandoci sopra e cambiando discorso".

Dall'altra parte del telefono, l'ispettore Grimaudo non sembrava essere persuasa dei fatti.

"È più di prima, ma ancora poco".

Scese il silenzio tra noi due. Poi compresi che l'intenzione dell'ispettore Grimaudo fosse quella di invitarmi a dire tutto, determinata a non accettare più alcuna omissione da parte mia.

Decisi che avrei dovuto farlo.

"Non le ho detto tutto".

"Lo faccia, dottore, e chiudiamo la questione".

"Ho paura".

"Perché?"

"Non sono a Torino, e non posso raggiungerla".

"Dove si trova esattamente?"

"A Barcellona".

"Ha un indirizzo?".

"Ancora no, non ho preso un albergo".

"Perché è a Barcellona, Andrea? Deve dirmi tutto, oppure chiudiamo, sinceramente ho altri reati che attendono qui sulla mia scrivania. Non sono pochi, mi creda."

"Devo incontrare quella ragazza...", sospesi le parole a mezz'aria, "...Jaspreet".

Il silenzio dall'altra parte del telefono non fu come quello prima, fu cupo e più lungo, capace di spaccare le coronarie ad un cuore sano. Sapeva di preoccupazione.

"Non deve farlo. Mi creda non deve".

"Devo invece, fintanto che capirò cosa mi è realmente accaduto".

"Ora basta dottore, ora deve fare quello che le dico, e se vuole continuare vivere, deve tornare immediatamente a Torino. Prenda il primo volo, oppure si rechi al consolato e chieda di chiamare la Questura di Torino".

"Se incontro quella donna non saprò mai la verità".

"Si sbaglia Andrea. Penso invece che la saprebbe comunque, prima o poi, ma se adesso tenta di fare tutto da solo, sarà in pericolo e la Polizia italiana non potrà proteggerla. Mi creda, non finisce mai bene una storia come la sua. La prego", aggiunse l'ispettore.

"Ora la devo lasciare, la richiamo".

"No, aspetti.", mi immaginai rispondesse, ma io avevo già chiuso la conversazione e quelle parole non le ascoltai mai, e forse lei non le pronunciò affatto.

A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora