Non so come feci a trascinarmi il fardello di quella consapevolezza fino alla Sagrada Familia. Lì che mi aspettava Jaspreet, ma ora quell'appuntamento aveva un significato diverso. Non potevo più ingannare me stesso: avevano certato di uccidermi e lei probabilmente ne era complice.
La maestosità della chiesa mi appariva grandiosa, io piccolo ed insignificante. Troppe le linee volute dal suo architetto, troppe le luci riflesse e troppe le ombre, infinita la sua bellezza. Non vi era tempo però per pensarci.
Vidi Jaspreet venirmi incontro.
Un'andatura sicura, gli occhi solo parzialmente nascosti da occhiali da sole, i cappelli raccolti e legati alti. Una camicia, un giubbotto di pelle.
Fu a venti metri.
Poi a dieci.
Poi a cinque.
Poi, proprio davanti a me.
Io ero immobile. Pietrificato.
Mi guardò fisso negli occhi.
"Stai tremando", mi disse.
Non risposi, e per un attimo pensai di scappare e di gridare, ma le mie intenzioni non furono incanalate verso i muscoli. Rimasi invece bloccato sul quadrato del selciato della piazza. La bocca arsa per l'assenza totale di saliva. Se solo avesse piovuto, pensai, avrei bevuto una goccia alla volta. Era quella la paura, pensai.
Lei mi sfiorò con una mano, ma non mi toccò.
"Non devi avere paura di me".
"Non so neppure chi sei".
"Andiamo via, qui non possiamo parlare".
"Io da qui non mi muovo".
Lei si guardò intorno perlustrando la piazza come un soldato in allerta. Allungò la sua mano e cercò il contatto con la mia, ma io mi ritrassi di quel poco per evitarlo.
"Qui non possiamo parlare", ripeté.
"Non mi muovo".
"Hai chiamato la Polizia?", mi chiese allarmata.
Sapevo di dover rispondere immediatamente a quella domanda se volevo suonare credibile.
"No, cioè sì. Ho chiamato la Polizia, quella italiana, non quella spagnola, e qui ci sono soltanto io, non ho detto che ti avrei vista qui, ma sanno che ti avrei incontrata".
Lei guardò nuovamente la zona ruotando in tutte le direzioni. Era chiaro che non fossi il solo ad essere a disagio.
E, a peggiorare quella situazione, una coppia di uomini ci venne incontro con un passo cadenzato.
Jaspreet irrigidì la schiena e si preparò in una posizione di difesa. Io non seppi cosa fare. I due uomini, ci oltrepassarono, forse commentarono tra loro il nostro atteggiamento in una lingua a me incomprensibile.
Passato il falso allarme, ripresi a parlare.
"Sono solo, dimmi cosa vuoi e finiamola qui", le dissi ritrovando in me un coraggio che non pensavo di possedere.
"Non qui, andiamo via, ti prego".
Io non cedetti e lei capì che avrebbe dovuto dirmi qualcosa per convincermi.
"Poco lontano da qui, c'è una casa. È mia. Devi vedere una cosa".
Credo, anzi ne sono certo, che aggiunse anche una frase in spagnolo o in catalano, che io non compresi ed obiettai alzando di poco la voce.
"Devi dirmi la verità: tu eri nel bar quando sono stato avvelenato!".
Lei si chiuse come se fosse una scatola. Poi una luce si accese negli occhi, in un'esitazione.
"Ero lì, è vero".
Tutto il mondo che conoscevo fino a quel momento, ruotò diversamente creando un grado di separazione tra quanto sapessi "prima" e quanto avrei saputo "dopo" quelle parole. Ed ebbi la certezza che quella nuova rotazione avrebbe compromesso ogni mia effimera stabilità.
"Ripetilo, per favore".
"Ero lì".
"Eri lì, perché?".
"Non sempre è facile spiegare, Andrea".
Usò il mio nome con estrema cautela, per verificare se le fosse consentito.
Io provai a sperare in una qualsiasi spiegazione che potesse rivelarmi una realtà sopportabile. Ed invece, lei non disse nulla per alleviare la sua posizione. E dalle sue prime ammissioni, avevo appurato che i fatti si erano proprio svolti come l'ispettore Grimaudo avesse fin da subito sospettato: ero stato avvelenato, ed era stata lei.
Eppure, nonostante quella evidenza, non mi era veramente chiaro se dovessi accettare quella realtà.
"Tu prova a spiegare", le dissi.
"Non qui, ti prego".
Io guardai la cattedrale e la piazza. Constatai che la magnificenza della prima era impareggiabile, mentre la pochezza della seconda mi lasciava indifferente. E le genti tutt'intorno, che normalmente avrei accettato, creavano in me un'irritazione traboccante.
"Andiamo via".
Lei si incamminò tenendo da me una certa distanza, ma sufficientemente vicina per dare la parvenza di un procedere insieme. Prese la direzione sud, poi si spinse in una via laterale.
Il cielo adesso non faceva alcuno sconto alle nuvole, spazzandole lontano appena queste tentavano di avvicinarsi ad una Barcellona candida e tersa. L'aria era perfettamente nitida. Il vento, in alto, padroneggiava.
Io camminavo e non pensavo.
"Dove andiamo?".
"Ci vorrà poco, andiamo al Museo Picasso, lì potremmo parlare".
"Avevi parlato di casa tua", dissi fermandomi.
"Capirai dopo, ti prego", aggiunse dominando le mie perplessità.
Ero stanco di quei modi, e sì, avevo capito quanto conoscesse di me, quanto per me l'arte importante, ma era anche terminato il tempo del gioco, e che quel gioco non mi piaceva affatto. Ma tutte quelle cose le pensai e basta e non le dissi nulla.
Fummo davanti all'ingresso del Museo Picasso, lei si fermò. Dalle sue labbra uscirono parole destinate nuovamente a confondermi.
"Quel giorno avrei dovuto ucciderti, è così".
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A pelo d'acqua
Mystery / ThrillerAndrea è un medico. Vive a Torino, la sua è una vita solo apparentemente normale. Ha una sola passione: l'arte. Ed è proprio questa che lo porta ad imbattersi in una storia che cambierà la sua vita riportandolo nel suo passato. E poi c'è Jaspreet u...