Quarantanove

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Ero malato da molti anni. Ne ero consapevole e nello stesso tempo lo volevo ignorare. Ero in cura, ma mai lo avrei ammesso. Neppure a me stesso.

Come uomo, ero un peso per tutti, di certo non uno su cui appoggiarsi.

Schizofrenia paranoide.

Lo appresi un giorno da un referto che riportava il mio nome e che era stato dimenticato su un tavolo di casa mia. Ricordo ancora l'espressione di mia madre distrutta per aver commesso quella distrazione. A me non avevano mai voluto dirmi nulla della mia malattia.

Ma lessi anche che la stessa era "contenuta in uno stato non pericoloso dai farmaci di cui si consiglia un rigoroso rispetto della posologia", che io però non assumevo più da mesi.

Della mia malattia, avevo trovato personalmente, e senza l'aiuto di alcun medico, una cura migliore: quella di isolarmi da tutti, di immergermi sott'acqua e di riemergere il solo tempo necessario per respirare.

Erano questi i "miei" cambi di scena.

Uno ad uno, mi permettevano di vivere la vita sociale fatta di piccoli brandelli di tempo, di inizi e di fine che dovevano essere subito dimenticati per non creare strascichi, difficoltà, elaborazioni. Se per ogni atto della mia vita, fossi riuscito a creare un piccolo frammento di tempo, questo, proprio perché breve, riuscivo ad affrontarlo e a dimenticarlo poco dopo.

Non ero "strano", non ero "egoista", ero malato.

Ma la mia malattia, anziché condannarmi, in realtà mi aveva salvato da un male peggiore.

Ricordare quello che avevo fatto.

Lampi. Schegge. Frammenti, parti di vita, brevi discorsi. Labbra che si muovevano senza emettere suono, e che non svelavano nulla. La chiara percezione di avere un vissuto sepolto sotto metri d'acqua, di un'acqua scura, torbida, ed ora, ora che il fondale di quell'acqua era stato rimestato, non mi era più possibile ignorare.

Maledetti poliziotti.

Ero io quello?

Cosa avevo fatto?

E soprattutto, come ero riuscito a dimenticare il mio passato?

Tutti questi interrogativi ora tamburellavano nella mente in cerca di una risposta.

Poi, come se avesse scelto il momento perfetto, come se avesse sapientemente atteso che l'apice dell'ira di un uragano che altro non erano le mie emozioni, Toscani sfilò dal dossier un'altra fotografia.

Lo fece lentamente, simulando un'attenzione come se stesse per svelarmi un segreto.

La guardai, gliela presi dalle mani. Impallidii, deglutii e, a quel punto, mi fu tutto chiaro.

Feci per negare, ma Toscani mi interruppe.

"Chi sono queste persone?", e avvicinandosi a me aggiunse: "abbiamo bisogno di saperlo, Bonelli".

Non risposi, ed allora il tono divenne più ruvido.

"Dottor Bonelli, con il suo comportamento, lei ammette di conoscere il gruppo di persone presenti in questa fotografia?".

La fotografia era stata scattata in una casa in campagna.

Esattamente nella casa che i miei suoceri avevano affittato in una zona remota della Valle di Susa, a quaranta minuti da Torino, oltre Bussoleno che è un paese a fondo di una valle sufficientemente stretta da toglierle il sole, d'inverno, nelle prime ore del pomeriggio. Ricordo che per arrivare alla casa, si lasciava il paese, ed il fondo valle, e si saliva su una strada stretta che si inerpicava sul lato sud fino con tornanti stretti e la totale assenza di guardrail. D'inverno, se nevicava, si rimaneva intrappolati per ore, e a quei tempi, anche per giorni.

Toscani e la Grimaudo erano in attesa della mia risposta.

Dei sei uomini della fotografia, con il volto coperto da passamontagna, quattro erano i miei famigliari: mio suocero, seduto al centro del tavolo, mia suocera in piedi dietro di lui, i loro due figli, e cioè mia moglie e mio cognato. Michele che sedevano alla destra e Irene alla sinistra.

Gli altri due uomini si facevano chiamare Renato, quello con la cicatrice che avevo riconosciuto in Questura, e Diego, un giovane forte, alto, biondo, di lui sapevo poco già allora. Renato e Diego, pensai.

Nomi di battaglia.

Nomi di brigatisti.

A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora