Sedici

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L'ispettore Grimaudo era diversa dalle volte precedenti. Nuovo taglio di capelli, occhi truccati, rossetto sulla bocca, e...quella era una gonna, non un jeans, e le scarpe decolté, non scarpe per correre veloci, non era una maglia qualunque, ma una giacca, un blazer elegante, e le mani sembravano appena uscite da un salone di bellezza. Brillava.

Ed io ero attento ad ogni particolare.

Lei lo notò.

"Arrivo dall'ufficio del Vicequestore, il mio capo".

"E?".

"E c'era il Procuratore nel suo ufficio, ed anche il Questore".

"Non mi intendo di Polizia, Procure e tutto ciò che gira intorno a voi".

"Capisco, ma vedrà sarà così fintanto ad oggi. Sembra che all'improvviso tutti si siano interessati a lei".

"Non la seguo, posso far finta di capire se vuole. Vuole dirmi perché?".

"Il suo caso è molto strano. E poi quella donna, Jaspreet si è resa irrintracciabile".

Fui al limite dell'esasperazione. Avevo provato ogni direzione per dissuadere l'ispettore Grimaudo dal suo intento e non capivo come potesse rimanere nelle sue convinzioni. Adesso avevano coinvolto anche i vertici della Polizia di Torino e mi sembrava un interesse verso di me abnorme.

"Glielo ripeto, l'interesse su di me è ingiustificato da parte vostra. Vi sbagliate. Mi hanno derubato, d'accordo. Il fatto è avvenuto dopo il mio infarto, mi sembra chiaro. La ragazza che mi ha soccorso è arrivata dopo, fosse anche soltanto un minuto dopo, e non ha visto la scena del ladro che ha semplicemente approfittato della situazione. Sono arrivate le autoambulanze, e mi hanno salvato. La colpa è certamente mia, perché ho complicato la mia già difficile situazione con l'interpretazione, venuta male, anzi malissimo, dell'uomo che dichiara di aver perso la memoria ed invece non era vero. Su questo punto non la biasimo. Lei si è quindi insospettita del fatto che io volessi lasciare fuori la mia famiglia da tutto ciò. A peggiorare ulteriormente la mia situazione, è venuto fuori un riscontro medico secondo il quale sarei stato potenzialmente vittima di un iperdosaggio di antiinfiammatori che avrebbero procurato l'infarto. Ma deve essersi trattato di un errore e chiederò nuove analisi", dissi senza interruzione.

Lei mi guardò con un'espressione che diceva: vada avanti. Così lo feci.

"Lei ha fatto alcune somme, tipicamente l'uno più uno che a volte crea però dei falsi positivi, ed ha dedotto, erroneamente, che io sarei stato avvelenato. Ora, la ringrazio, veramente. Non avrei mai pensato che la Polizia italiana avrebbe preso così a cuore la mia salute e la mia sicurezza, ma ora mi sembra chiaro, lampante, perfino a me che sono soltanto un medico, che tutto si sgonfierà nel giro di pochi giorni e che nulla di quanto affermate sia realmente successo e se non fosse per le cartelle mediche che riportano l'infarto, potrei archiviare la vicenda come uno spiacevole accadimento delle cose".

Mi sentii illuminato dalla mia stessa loquacità.

Lei era di un'altra opinione.

"E gli antiinfiammatori?".

"Esame sbagliato. Provetta scambiata. Errore umano. Non lo so! Ma è una delle alternative tra queste!".

"Potremmo rifare gli esami".

"Potremmo e forse li farò, come detto, ma non qui, non oggi, né domani. Ora ho soltanto voglia di andarmene a casa e di chiudere per sempre questa storia".

"È questo suo atteggiamento che complica le cose, mi creda", disse lei seria.

"Quale atteggiamento?".

"Lei non collabora".

Scese un silenzio pesante.

Lei mi guardò.

Per un po', credetti, e a distanza di tempo lo credo ancora più fortemente, che anch'essa accarezzò l'idea di un lieto fine più semplice.

Ricambiai quello sguardo.

Per spezzare la tensione, pensai di farle un complimento per l'abbigliamento e per tutto il resto, ma mi sentii goffo e per mia fortuna non esposi il mio pensiero, mi limitai invece a sorridere ricercando in lei una maggior comprensione.

Non fu così.

Lei dimostrò la capacità, affatto comune, di rimanere immobile e di non dire nulla, limitandosi all'attesa, e nella sicurezza che per vincere lo scontro con me le sarebbe bastato scattare nel momento giusto.

Avevo anche la netta sensazione che stesse realmente per sferrare il suo colpo.

Soltanto che si trattava della mia vita, di quella si stava parlando. Io me ne ero reso conto, in un labile momento di lucidità avevo intuito che l'ispettore fosse a conoscenza di qualcosa che non potei comprendere.

Sono certo che respirai nell'osservarla, perché è natura farlo, ma non ci giurerei.

Si trattò di pochi secondi appena, ma sostenere quello sguardo non fu per me facile, ed ero certo, dai lineamenti che aveva assunto in viso, che avesse in serbo per me qualcosa che avrebbe cambiato il corso delle mie convinzioni.

E, come se volessi rimandare le sue rivelazioni, parlai per primo, ma mi uscirono solo parole vuote e di circostanza alle quali lei neppure fece caso. Provai un disagio estremo. Si alzò dalla sedia, e forse fu per la gonna che indossava, oppure per le scarpe che la slanciavano, o per la bocca che aveva già visto le volte precedenti ma senza quel rossetto, o per i capelli con quel taglio e con un colore diverso, o ancora per gli occhi che mi parvero con un'intensità maggiore rispetto le prime volte, oppure per tutte questo insieme che, a ormai sgomento, le chiesi soltanto: "Che ho?".

"Vorrei che fosse come ha detto lei, dottore. Che ci siamo sbagliati. E potrebbe".

"Ma?"

"Ma abbiamo questo".

E nel farlo mise nelle mie mani il mio telefono, avevo quasi dimenticato che lei fosse venuta da me per restituirmelo.

Lo schermo rivolto verso di me.

"L'abbiamo trovato", disse.

Poi lei se ne andò.

Io rimasi a contemplare la fotografia impressa in quello schermo per tutta la notte.

Non c'erano dubbi.

Quella era il volto di Jaspreet.

Sprofondai nelle acque più profonde.

Un mostro era venuto a prendermi.


A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora