Trentadue

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Passai in rassegna i quadri. Riconoscevo i caratteri principali, ed alcune opera in particolare. Se erano autentici, le firme erano importantissime: Van Gogh (per me il massimo, nel mio sognare, il massimo sicuramente), Van Eyck (un altro fiammingo, un altro tra ai miei preferiti), Monet, ed altri, ed altri... io non osavo più chiedere spiegazioni.

"Sono tutti autentici. Questi quattro", indicò i fiamminghi che avevo appena riconosciuto, "sono stati rubati in una casa privata. Un francese molto ricco, un diplomatico. Ha denunciato il furto, ma come potrai immaginare, non lo ha potuto fare in modo pubblico perché quadri come questi non dovrebbero appartenere a nessun privato senza una comprovata storia che ne dimostri la proprietà".

Io iniziavo finalmente a capire, ma mi servivano dei costrutti su cui appigliarmi.

"Come aveva ottenuto quei quadri?".

"Anche lui li aveva... rubati... non c'è altro modo per dirlo. Dove? Come? Non saprei. Sicuramente non aveva eseguito il furto direttamente, forse li aveva semplicemente comprati da qualcuno che lo aveva fatto, oppure li aveva ereditati molti anni prima ed in circostanze particolari. Ottenuti come pagamento di una guerra, o di un debito. Sono certa che i quadri appartenevano al patrimonio dello Stato francese o di chissà quale altra istituzione. Ma qualcuno appunto li ha fatti sparire, li ha liquefatti, ha creato un oblio attorno ad essi e poi, anni dopo, sono riapparsi in una casa di un privato e da lì...".

Ero un medico e non un investigatore, ma ormai mi sembrava che la storia fosse più chiara e definita: ladri che rubano a ladri, che rubano a ladri.

"E poi li abbiamo presi noi", concluse Jaspreet.

Appunto, pensai: ladri che rubano a ladri.

"E li avete messi qui? Perché?".

"Non li abbiamo messi qui... sono io, io soltanto, che li ho sistemati qui, in questo luogo".

La sua voce era cambiata. Vi era dentro quell'agro che soltanto la paura trasferisce. Io lo percepii, ma non le dissi nulla.

"Tu?".

"Li ho rubati a mia volta".

Rimasi allibito, era la prova del mio ragionare.

La paura si trasferì da lei in me, come se fosse un'operazione di osmosi. Mi sentii immediatamente nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.

Come se essere in quel luogo significasse essere diventato complice.

Eppure non le credevo neppure ad una sola parola.

"Cosa vuoi dirmi, Jaspreet?".

"Molte cose insieme: che mi stanno cercando, che non sanno che sono qui, che sono la proprietaria di questa casa, che i quadri sono autentici. Mi devi credere!".

Non è possibile pensai, sto sognando, sono in un incubo e non me ne sto rendendo conto.

Si tratta ancora dei postumi dell'infarto. Ecco, ho trovato, mi dissi, sono in coma. I medici mi stanno tenendo in coma perché l'infarto è grave e sono in pericolo di vita. Sto sognando, ed è un incubo, un bellissimo incubo a pensarci bene. Ma non era così.

Jaspreet mi prese ancora la mano, ma io non le permisi di trattenerla nella sua. Feci due passi indietro ed ebbi la netta voglia di scappare da quel luogo, fuggire e farla finita con una storia che sapeva di assurdo.

"Voglio andarmene Jaspreet. Mi hai spaventato con questi racconti. Non ti credo, voglio andarmene".

Lei non reagì alle mie parole.

Così le diedi le spalle, per andarmene.

Esitai, ma non percependo in lei nessuna reazione, mi incamminai verso le scale voltandomi verso la parete opposta.

Poi lo vidi, e mi bloccai pietrificandomi.

Van Dyck.

Non un quadro qualunque, ma "quel quadro!".

Quello che avrebbe dovuto essere ai Musei Reali di Torino, che avevo notato, quel rosso che non era il rosso che mi attendevo, quello che mi aveva portato a fare mille domande e che, a questo punto, dovevo pur credere fosse la ragione per la quale adesso ero qui!

Quel quadro mi aveva portato sull'orlo del baratro e Jaspreet, in quel baratro, mi aveva spinto facendomi incontrare una realtà che mai prima avrei potuto immaginare.

Van Dyck.

Non avevo dubbi.

Feci per aprire bocca.

Ma le luci si spensero all'improvviso.

A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora