Sei

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La porta della stanza si aprì lentamente. Mi voltai con un eccesso di entusiasmo. Ancora sulla soglia, una figura femminile allungava il collo prima di decidere di entrare. Abbassai lo sguardo, perché il collo mi doleva, e notai un paio di jeans venire avanti, poi un giubbotto di pelle. Come un corpo, senza la testa. Poi la vidi, ma non misi a fuoco.

Mia moglie?

Mia cognata?

Né l'una, né l'altra.

Una sconosciuta.

Rimasi interdetto, e deluso.

"Buongiorno, spero di non averla disturbata".

"Non saprei cosa risponderle", ammisi sinceramente.

Lei allora si fermò, e arretrò di un passo, rimanendo ad una certa distanza. Dal suo abbigliamento prima, e dal modo di fare dopo, capii che non si trattava né di un medico, né di un'infermiera. L'espressione del viso che rivolgeva verso di me era uno sguardo diverso dall'interesse di chi è atto per curare un paziente (l'ampio e personale catalogo delle espressioni dei visi degli addetti al lavoro degli ospedali non includeva comunque quella faccia. Sarebbe un lungo discorso da fare a proposito, ma credo non sia interessante farlo in questo momento e temo che vi annoierei a morte).

"Mi scusi, forse non avrei dovuto entrare. I medici mi hanno permesso di farlo", si giustificò, ma in lei notavo anche un certo grado di superiorità. Ma non era una condizione di status e non seppi a cosa si riferisse quella sicurezza che emanava pur giustificandosi.

Credo notasse il mio stato confusionale, e certo il mio silenzio non agevolava il discorso.

Con mia sorpresa, rimase ferma in quel silenzio privo di imbarazzo che invece avrebbe dovuto materializzarsi.

La guardai meglio, il suo viso, mi pareva avere un che di... sì... di rassicurante, il sorriso sincero, lo sguardo gentile, e magnetico.

"Non mi sembra di conoscerla", le dissi e mi parve una scelta giusta delle parole.

Ed allora lei si fece più avanti e, ma non lo avevo notato prima, alle sue spalle, c'era anche un lui.

La vista di un altro essere umano, un trasandato orribile, rese ancora più complicato mettere ordine ai miei pensieri.

"Siamo della Polizia".

Se già prima avevo parlato poco, ora mi sembrò di diventare completamente afono, senza sapere come argomentare quell'esordio.

Avevo avuto un infarto, dunque quale reato potevo aver commesso?

"Siamo della Polizia", ripeté per accertarsi che avessi compreso, "Del Commissariato di zona, e siamo qui per identificarla".

"Come?", dissi con un filo di voce appena e tentando di sollevarmi, ma mi era impossibile farlo.

Lei, temendo per la mia agitazione, chiarì immediatamente: "Quando è stato portato in ospedale non aveva con sé alcun documento. Abbiamo atteso che fosse in condizione di rispondere alle nostre domande e siamo venuti qui. È nostro dovere aiutarla, e immagino comprenderà le nostre ragioni", poi la voce dell'uomo aggiunse in un sincronismo affettato: "Sicuramente la sua famiglia sarà in pensiero per lei".

Mi era stata posta una domanda semplicissima, la cui risposta sarebbe stata immediata, ed invece il dubbio si impossessò totalmente di me. Rimasi muto rimescolando la richiesta dei poliziotti nel groviglio dei miei pensieri, valutando le conseguenze della mia risposta.

Volevo realmente tornare alla mia vita?

Avrei potuto attendere almeno un altro poco? E quanto? E soprattutto, perché propendevo per non volerlo?!

I due poliziotti, increduli di fronte al mio mutismo, si scambiarono uno sguardo indecifrabile.

"Forse dovremmo tornare in un altro momento", disse allora la poliziotta rivolta al collega.

Lui annuì, poi si rivolse a me, formulando un ultimo tentativo: "Non ricorda il suo nome?".

Non risposi, il monitor legato a me come se fosse una mia prolunga, iniziò ad emettere un suono intenso, e loro si allarmarono: chiamarono un'infermiera, che chiamò la responsabile del piano, che chiamò un medico.

Questi si sincerò delle mie condizioni, premunendosi di far uscire dalla stanza i poliziotti, ma non era nulla, solo un innalzamento della pressione ed era già passato. Fece per uscire, probabilmente per tranquillizzare i due rappresentanti dell'ordine, poi invece si fermò di colpo e con estrema prudenza, e tatto, mi chiese se davvero non ricordassi il mio nome.

Io rimasi immobile.

E soprattutto incerto.

Vi avevo già detto che lambivo la zona della pazzia, ma fu in quel momento che decisi di buttarmici completamente dentro.

Mi sforzai allora di rispondere: "Non ricordo nulla, neppure il mio nome".

Non mi ero accorto che la poliziotta era rientrata nella stanza. La vidi solo in quel momento mentre mi osservava vivisezionandomi con lo sguardo.

Non mi aveva creduto.

A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora