Trentacinque

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Amritsar è una città del Punjab, una terra fertilissima a nord ovest dell'India. Vi abitano centomila abitanti. La parola Punjab è la combinazione di due parole: punj, che significa cinque, e aab che significa acqua. Sono infatti cinque i fiumi che bagnano quella zona del paese. Uno di questi è il Chenab: è lungo le sue sponde che era nata Jaspreet prima che la sua famiglia decidesse di spostarsi nella bellissima città di Amritsar.

Non conosco l'India, la immagino una terra immensa, ricca di diversità, estremamente povera, con intere regioni che dispongono di una natura selvaggia ed incontaminata.

Non so perché durante la nostra fuga, Jaspreet volle raccontarmi della sua terra e delle sue origini, in tutti i casi lo fece ed io l'ascoltai senza perdermi una sola parola.

Mi raccontò del il periodo della colonizzazione britannica come un pesante fardello ed anche la sua liberazione che fu teatro di atroci massacri e truci ingiustizie. Un periodo che lei non aveva certo vissuto, ma che era ancora profondamente radicato nei racconti dei vecchi e nei segni intangibili del passaggio degli inglesi.

Poi mi parlò delle persone di quella zona dell'India, un misto di fierezza, saggezza e durezza, e non feci difficoltà a crederle mentre lo raccontava.

Dalle sue parole, mi immaginai, non senza pregiudizio, i loro sguardi limpidi e profondi, le loro vite innestate in radici profonde che scorrono sotto i loro piedi e che si bagnano nei fiumi di quella terra.

Jaspreet aveva lasciato tutto ciò alle sue spalle da giovanissima.

A vent'anni, partita per cinque anni di studio in Inghilterra, l'odiato, ed al contempo amato, invasore, non vi era mai giunta.

Nel suo viaggio le fu "letale" la tappa in Italia, un regalo dei suoi genitori, come se non fosse già abbastanza quello che avevano fatto per lei.

A Roma, Jaspreet si innamorò.

E in quella città vi rimase cinque anni.

Poi quell'amore cessò ma non mi disse il perché. Lessi in lei soltanto un'amara tristezza, come se quel legame si fosse spezzato all'improvviso.

E da quel momento, per i due anni successivi, un turbine di viaggi aveva caratterizzato la vita di Jaspreet: Vienna, Amsterdam, Parigi, Stoccolma, Amburgo, Monaco, Il Canada, L'Argentina, New York.

Non come turista, né per un periodo sabbatico, ma per proseguire gli studi in storia dell'arte che aveva compiuto a Roma.

Un incontro casuale le aveva infatti cambiato la vita. In un bar di Roma, uno del centro, si era ritrovata a condividere un tavolo con un alto funzionario dell'ambasciata della Spagna. Un uomo importante. E soprattutto appassionato di arte. Fu inevitabile tra loro un lungo confronto sui reciproci gusti artistici e, senza averlo programmato prima, Jaspreet si ritrovò avvolta nel fascino di quell'uomo.

Seguirono i mesi e le frequentazioni. Alla fine non vi rimase un'amicizia molto importante per lei. E tra le molteplici porte a cui questa dava accesso, Jaspreet scelse ancora l'arte. Il funzionario le fece infatti conoscere un altro diplomatico, che la presentò ad un capo di una grande organizzazione per il recupero delle opere d'arte.

Quella in cui Jaspreet stava ancora lavorando.

E senza saperlo, grazie a quel lavoro, avrebbe chiuso un cerchio della sua vita.

Queste erano state le sue parole pronunciate mentre ci spostavamo veloci e con pochissime pause. Poi, non appena ci sentimmo al sicuro, ci fermammo per verificare la possibilità di essere stati inseguiti.

Avevamo lasciato la chiesa da un'uscita secondaria e poco visibile. Chi ci stava inseguendo l'avrebbe trovata, ma a quel punto, dopo cambiato due taxi, aver utilizzato la metropolitana, essere ritornati all'aria aperta all'altezza di Bogatell sul lungo mare di Barcellona, ci parve di essere al sicuro.

Non avevamo però una bella faccia.

Le proposi di cercare un bar e di prendere un caffè, ma rifiutò.

Non avrebbe voluto trovarsi nuovamente in un luogo chiuso, disse, così optammo per camminare lungo mare lasciandoci guidare dalla costa.

Per un po' non parlammo, poi il racconto sulle sue origini e la sua storia continuò senza neppure sollecitarlo.

Forse potrebbe risultare inutile dirvi nuovamente dell'attenzione che misi nell'ascolto delle sue parole, ma mettetevi nei miei panni: a me parve di ascoltare la storia di una persona che arrivava da un mondo così lontano dal mio che poteva risultarmi anche di un'altra costellazione.

Il mistero che circondava la sua persona, il suo sguardo, il suo corpo esile, confuso con lo sfondo della sua storia che ora, man mano, mi apparteneva, fu un concentrato di emozioni.

Senza quasi accorgermi, le presi la mano e lei la strinse.

Camminammo fino che fece buio e a quel punto ci trovammo fuori Barcellona.

Poi, dopo centinaia di parole, alcune perse e non ascoltate, migliaia di passi per dimenticare che stavamo scappando, lei si fermò.

Si sfilò le scarpe, le appoggiò sul limite della strada e scese in spiaggia.

Io feci lo stesso.

Guardammo verso il mare rimanendo in silenzio.

La sabbia era ancora tiepida, piacevole.

Il mare increspava una piccola onda ad oltre dieci metri dal bagnasciuga, poi l'acqua proseguiva piatta verso la spiaggia.

Nulla sembrava essere in tono con il caos che avevo vissuto durante tutto il giorno.

Mi ritornarono in mente i momenti della giornata, e mi resi conto di non aver chiamato mia moglie, né mio figlio.

Poi pensai ai quadri nascosti sotto la chiesa.

Provai a visualizzarli nella mia mente, continuando a dubitarne della loro veridicità.

Provai a comprendere le ragioni che avevano spinto Jaspreet a correre il rischio di raccontarmi tutto.

Fui tentato di chiederglielo.

Poi, non so bene come lei fece, si voltò all'improvviso verso di me, e quello, mi parve un bacio.

Di Giuda.

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