Con l'acqua che sentivo sopra la gola, incapace perfino di respirare, non riuscii a dire nulla. La donna fece un passo verso di me, poi si fermò nuovamente.
"Ora sta meglio?", chiese.
Credo di non aver sentito quelle parole, ma ne lessi il labiale. Risposi di sì, e scese un silenzio che sapeva di inverno.
La poliziotta aveva ragione: era bella, ed era l'unica informazione che avevo di lei. Non avrei saputo neppure darle un'età. Trent'anni? Trentacinque? Nei suoi lineamenti non vi era nulla che mi fosse familiare, niente, ed ero sicuro di non averla mai vista prima. Avevo la sgradevole sensazione di essere in balia degli altri, obbligato ad attendere la loro misericordia nel farmi sapere le cose che erano "mie", ma di cui non disponevo più la proprietà. Quanto ancora avrei dovuto espiare? Mi sentivo come in gabbia.
Fuori dalla finestra, un rumore sordo, ruppe quel momento.
Provai allora a sistemarmi meglio sul letto cercando una dignità difficile da raggiungere in quelle condizioni.
Erano molte domande che si presentavano alle mie labbra: "Come si chiama? Perché è qui? Ci siamo già incontrati prima? È vero che è venuta a trovarmi ogni giorno? Perché?".
La mia bocca sembrava però essere chiusa dalla calce e la sequenza delle domande mi sopraggiungeva in ordine che non mi sembrava corretto, così non seppi da dove iniziare e, invece di parlare, rimanemmo in silenzio per un po'. E mi meravigliai che la cosa non sembrò destare alcun imbarazzo fra noi.
Il rumore di prima, si ripresentò. Ora più intenso. Capii che si trattava delle operazioni di pulizia delle strade interne dell'ospedale perché il rumore cessò di colpo e si udì un motore che metteva in movimento un camion.
Per un momento, ebbi la certezza di cosa avrei dovuto chiederle: c'era sempre quel profumo nella stanza. Inizia da lì, pensai. E mi convinsi a farlo.
"Il tuo profumo. Lo avevi anche quel giorno".
Evitai volutamente di mettere il punto di domanda nell'intonazione della mia frase e lei non fece obiezione. Scosse semplicemente la testa rispondendo sì ma facendo il gesto di un "no", così non capii a cosa avrei dovuto credere. Sì, oppure no, chiesi, implorante.
Imparai quindi che gli indiani (dell'India, non del Nord d'America) scuotono la testa come gli europei per indicare un "no", ma nel loro paese, e nelle loro abitudini, quel movimento serve per affermare esattamente il contrario, cioè un "sì". Ma soprattutto, e con un aumento delle mie pulsazioni registrate dal monitor al mio fianco, scoprii che la donna dell'India.
"Lo fai sempre?".
"Cosa?".
"Scuotere la testa in quel modo".
"No. Di solito evito di farlo. Nel mio paese si usa acconsentire silenziosamente in questo modo per dare l'impressione all'interlocutore di approvare e di seguire il filo del discorso. Quasi sempre lo si riserva a chi è di rango superiore, come segno di sottomissione o di adulazione. Non so perché l'ho fatto adesso".
A quelle parole mi sentii come un marinaio in mezzo all'Oceano con l'esperienza di chi al massimo ha solo guidato un gommone davanti a Savona. In altre parole, mi sentivo perso ed incapace di sostenere la conversazione.
"Chi sei?".
Avrei dovuto chiederle, ed invece, inaspettatamente, e senza rendermene conto, le chiesi tutt'altro.
"Quel giorno mi seguivi. É così?".
Lei si stupì per quella mia improvvisa lucidità.
E devo ammettere che neppure io avrei creduto di possederne tanta. Capii di aver fatto "centro" perché nella luce nei suoi occhi neri, profondi come un pozzo, passò un'intensità diversa, uno scintillio che imparai poi a riconoscere meglio: una luce, nella luce dei suoi occhi scuri.
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A pelo d'acqua
Mystery / ThrillerAndrea è un medico. Vive a Torino, la sua è una vita solo apparentemente normale. Ha una sola passione: l'arte. Ed è proprio questa che lo porta ad imbattersi in una storia che cambierà la sua vita riportandolo nel suo passato. E poi c'è Jaspreet u...