Quattordici

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Si decisero finalmente a dire ciò che sapevano. "Il telefono...", disse la poliziotta che non nascondeva la frustrazione di essere incappata in un'indagine che si presentava complessa e con appigli invisibili, "... oggi è stato riacceso. Lo stiamo localizzando".

Poi se ne andarono, salutando gentili.

Forse avevano capito che non potrei mai essere un grande attore. E se invece lo fossi stato, allora quella sarebbe stata la miglior interpretazione del bugiardo, ma non era così: quel –BOH!- risuonava ancora forte dentro di me.

C'erano le parole di Jaspreet che ero riuscito a tenere per me, e delle quali avrei voluto averne il seguito, ma quel giorno non avrei avuto altro tempo per pensare e neppure per respirare: avevo fatto chiamare la mia famiglia, ed erano arrivati tutti.

L'ordine fu il seguente.

Moglie, in un misto di preoccupazione ed incazzatura.

Figlio, in un misto di...niente. Come da quando aveva compiuto quattordici anni.

Cognato e cognata, in un insieme di "come stai?", "cosa ti è successo?", "perché non chiamavi?", "ma è vero che avevi perso la memoria?", pronunciate con la velocità dei piloti di Formula 1 per evitare che le stesse fossero formulate da mia moglie.

Dovetti mentire. A quel punto, si rendeva obbligatorio un bluff degno di un film. Ed in fondo contavo sul segreto mantenuto dalla poliziotta che poteva essere tutto, tranne che carogna.

Ma su una cosa non potei inventare.

"Papà, perché qui fuori c'è la Polizia?".

Almeno avevo smosso la curiosità del quasi uomo ora quindicenne che avevo concepito insieme a mia moglie. Ero certo che negl'anni si sarebbe rivelato un uomo buono, capace e forte, ma in quel momento non aveva ancora ingerito l'antidoto al veleno dell'adolescenza.

"Dicono che hanno tentato di uccidermi. La Polizia è qui fuori perché ciò non accada più. Spero".

A quelle parole, come se ci fosse stato un segnale silenzioso e che io non percepii, si invertì l'ordine di prima: cognato e cognata, uscirono, Il figlio rimase sulla porta, ma ci fu il tentativo di trascinarlo fuori dagli zii, mia moglie si sedette sulla sedia.

"No, lui resta", dissi indicando Diego, mio figlio appunto. Fu con quelle semplici parole, che lui iniziò a cambiare lo compresi in quel momento: ero stato io fino a quel momento a non essermi mai realmente interessato della sua adolescenza e, soprattutto, di non averlo realmente reso partecipe della mia vita. Non potei esserne certo, ma mi parve che la profondità del suo sguardo nei miei confronti, cambiò proprio in quel momento in cui lo invitai a rimanere in stanza con me anziché rimanere fuori, non dalla porta, ma dalla mia vita.

In tutti i casi, parlai: "È stata qui una poliziotta, un ispettore precisamente. Mi ha detto che nel mio corpo hanno trovato una dose massiccia di un farmaco e che probabilmente sia stato questo ad indurre l'infarto. Se è vero, è un fatto a mia insaputa, ma deve esserci certamente una spiegazione diversa".

Mi guardarono perplessi, non a torto. Poi risposero in coro, muovendosi come nel nuoto sincronizzato.

"Tu non prendi farmaci".

"No, appunto".

Avevo sposato una donna intelligente, e mio figlio era sì adolescente, ma aveva nel sangue tutto di sua madre... in altre parole... capirono l'allusione all'istante e si spaventarono.

Cercai allora di calmarli, ma non vi riuscii e seguirono numerose altre domande alle quali però non seppi rispondere, e questo li allarmò maggiormente.

"Perché non ci hai chiamato prima?", la voce di mio figlio ad inchiodarmi alle mie responsabilità.

A lui non seppi mentire, cosi dissi la verità, ciò che a loro parve la verità, perché il vero motivo ancora non saprei dirlo, ad ogni modo dissi che avevo sentito un bisogno di solitudine vero, profondo, ineluttabile al punto che ora, pur vedendoli davanti a me, non mi sentivo in colpa per averlo fatto.

Seppure crudele, la verità aggiustò tutto.

O quasi tutto.

Di Jaspreet non dissi nulla.

Neppure a loro.

A pelo d'acquaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora