A pelo d'acqua

Ventuno

Dopo aver pagato, e ringraziato il cameriere per avermi concesso il suo telefono, lasciai il bar. Una nuvola bianca, che sapeva di latte, aveva invaso il cielo. Dei puntini neri in alto indicavano rondini voraci e veloci. Sotto quella nuvola, le persone sfrecciando a passi veloci in tutte le direzioni. I bambini vociavano con le mamme inducendole a strattonarli per mantenere la direzione dei loro passi e dei loro intenti. Uomini, vestiti in cravatta, si dirigevano all'entrata di una banca per chissà quali importanti incombenze. A me parve di essere fuori da quel contesto. Tutto mi era estraneo: le strade, i muri, le case, gli alberi, le auto, gli individui. Soltanto la nuvola pannosa mi metteva a mio agio.

Con quel senso di disappunto, che altro non era il risultato della telefonata con l'ispettore Grimaudo, pentito di averla chiamata per poi deluderla nelle aspettative, percorsi a passi veloci un isolato intero diretto all'appuntamento con Jaspreet.

Dovetti ammettere la pazzia che mi stava trascinando da quella donna fosse inspiegabile. Non avrei dovuto farlo, eppure sentivo che ci fosse una forza attrattiva che mi trascinava fino a quel punto. Ero come sott'acqua, in un mare profondo, pensai, e una risalita ad una velocità eccessiva fosse pericolosa ma altrettanto necessaria. Avevo finito l'ossigeno, rimanere sotto non mi avrebbe giovato.

Aver mentito all'ispettore Grimaudo.

Non le avevo detto tutto.

L'uomo che mi aveva dato la bustina di zucchero non era solo in quel bar di Torino.

Con lui c'era una donna che, ricordavo bene, mi dava le spalle e non potevo vederla, ma ora sapevo bene chi fosse.

Quel profumo che avevo percepito poco prima dell'infarto, l'avevo già sentito "prima" di crollare sull'asfalto, e l'avevo addosso già in quel bar.

Per questo lo avevo ricordato.

Quella donna era Jaspreet.