I - Ammoniaca negli occhi

190 10 8
                                    

Ricordavo poco di quello che mi fosse successo sino ad allora; a dire il vero non ricordavo proprio nulla. Mi avevano cancellato la memoria, resettato. Mi avevano affidato un compito, creato un destino, e di me ormai non era rimasto niente.

Tutto quello che ricordavo dei momenti prima del risveglio erano i carri nella notte, le luci fredde e accecanti sparate negli occhi e dei rantoli di voci che si affollavano intorno a me. Tutto sfocato, tutto confuso.
Poi il vuoto.

Mi svegliai in una notte di febbraio, in quella che si potrebbe definire una vera e propria caserma. La neve baciava appena il suolo imbrunito dai passi dei soldati e l'atmosfera era lugubre e annoiata. Le luci basse, il vento freddo; tutte emozioni nuove per la mia mente indolenzita.
Non aveva idea del perché fossi lì, non sapevo chi mi ci avesse scaraventato.

Quando mi svegliai mi ritrovai in una delle stanze della caserma, indossavo una divisa militare diversa da quelle consuete; era leggermente larga sui fianchi e aveva un sotto tono di verde più acceso. Non appena riaprii gli occhi, che bruciavano come se ci fosse finita dell’ammoniaca dentro, ebbi una tremenda fitta al braccio sinistro. La pelle tirava da impazzire quasi come stesse per strapparsi da un momento all'altro. Sollevai la manica della camicia e vidi dei segni stampati in rilievo, quasi come una scritta in braille marchiata a fuoco sulla mia pelle. Prudeva come un eritema solare e bruciava leggermente sui lati del braccio. Passai il dito su quelle tacche a partire dall’avanbraccio e salendo piano sino al polso, sfiorai appena la pelle con un dito. Non riuscivo a capire cosa significassero quei puntini sparpagliati, quelle linee marcate che formavano una strana figura geometrica. Poi, all'estremità del polso, in orizzontale riconobbi una parola scritta in lettere maiuscole. Afferrai il polso con la mano destra, ingarbugliandomi con il filo del saturimetro che mi avevano messo al dito, e premendo forte il pollice sulla pelle, lessi quelle lettere:

LUCE EA n.4

“Luce” sussurrai.
Mi stupì della mia voce; non conoscevo il suo suono fino ad allora, o almeno non lo ricordavo. Era una voce molto sottile, levigata ma graffiata a tratti; l'eco femminile che sfoggiava era davvero forte.

Non avevo idea di cosa volesse dire quella parola ma era tutto quello che sapevo. Ingenuamente pensai che potesse essere un nome o un qualche tipo di soprannome e decisi di adottarlo come biglietto da visita, almeno avrei potuto illudermi di esistere e di essere davvero una persona. Col tempo era incominciato a piacermi, aveva un non so che di poetico e mi ero abituato al suono di quelle quattro lettere.

Provai ad alzarmi e a guardarmi intorno ma i miei muscoli non me lo permisero; sentivo una stanchezza che riempiva ogni singolo anfratto del mio corpo. Rimasi a mezzo letto studiando la stanza: le pareti in legno scuro quasi affumicate, il pavimento in cemento grezzo, le finestre sprangate.

Sospirai. Dove ero finito?

Prima ancora di poter inventare un qualche tipo di risposta a quella domanda, le porte corazzate della stanza si aprirono.

Un vento gelido entrò in compagnia di una luce insopportabilmente forte per i miei occhi feriti.
Mi trovai accerchiato, stretto nella morsa di alcune braccia indelicate. Davanti a me altre figure irriconoscibili, tranne che per una: un uomo rude, dal viso aspro, con gli occhi luminosi.

Persi i sensi. Persi conoscenza ancora, ma questa volta rimasi mediamente cosciente. Sentivo quel fluido bollente che mi iniettavano nel braccio propagarsi in tutto il corpo, mi sembrava di riuscire a vedere, in quell’oscuro torpore dei sensi, le mie vene che si diramavano come rami nelle foreste e si riempivano di linfa pestifera.

Caddi sul pavimento, intontito ma cosciente; sentì perfino il cemento gelido sulla guancia.

Tutto quello che mi successe dopo era sbiadito nella mia mente, solo una conversazione arrivò quasi nitida alle mie orecchie:
“Ma perché proprio io?” Era una voce roca, ruvida come una pietra pomice. “Non voglio più avere niente a che fare con tutto questo. Può farlo qualcun’altro.”
“Modera i termini ragazzo. Vedi di farti passare questo atteggiamento se non vuoi finire nella neve. Quando tornerai dall’alchimista inizierai l'addestramento, che tu lo voglia o meno. Sono stato chiaro?"
“Ma io..."
"Sono stato chiaro?! Non me ne frega un cazzo dei tuoi piagnistei. Questa è la guerra, tenente bellimbusto. Segui gli ordini o fai una brutta fine. Uccidi o fatti uccidere. E non voglio sentire una sola parola a riguardo.”
“Sì signore.”

Non ricordavo altro se non uno sguardo pungente, una sensazione strana addosso, come un velo di compassione che si posava sul mio corpo fatto di sasso.
Cosa mi era capitato?

LuceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora