52. TENTARE DI TUTTO

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MARCUS

Camminavo lentamente in mezzo alla rada vegetazione dell'isola di Capraia, tenendo fra le braccia l'esile corpo di Melissa scosso dai singhiozzi, domandandomi se stessi davvero facendo la cosa giusta, ma non potevo più vederla immobile su quel letto, mentre si rifiutava di nutrirsi, bere o parlare.

Avevo passato due giorni terribili, cercando di trovare un modo per strapparla dal suo stato di catatonia in cui era caduta per colpa di quella dannata letteta, in cui sua madre elargiva le sue futili scuse.
Mi era bastato leggerla una sola volta, per farmi andare il sangue alla testa.

Per due giorni ero stato costretto ad osservarla impotente, concedendole tutto il tempo di cui avesse bisogno per metabolizzare le poche informazioni ricevute, fino a quando avevo compreso che non l'avrebbe mai fatto. I suoi occhi vacui me lo avevano confermato. Si era arresa e si stava lasciando andare lentamente, reprimendo ogni emozione, ogni desiderio, ogni cosa.
Non credevo che fosse stata capace di arrivare a tanto e non avrei mai pensato che si sarebbe lasciata trascinare dalla disperazione. Era così diversa dalla ragazza che conoscevo, come se qualcosa l'avesse cambiata.

Ogni volta che la vedevo dal salone percorrere il corridoio, strisciando i piedi barcollando, il mio cuore si riempiva di sollievo e speranza al pensiero che finalmente si fosse decisa a reagire, ma poi quando imboccava il bagno e, dopo pochi minuti, ritornare in camera, sprofondavo di nuovo nello sconforto. Le parlavo, la provocavo, ma lei sembrava non ascoltare.
Non potevo più tollerare quella situazione. Dovevo agire, liberarla da tutto ciò che voleva reprimere e l'unico modo che avevo a disposizione era costringerla ad affrontarlo.

Ecco perché avevo deciso di portarla a Capraia. Quest'isola era l'unico posto certo per lei. Qui aveva trascorso parte della sua infanzia, l'adolescenza, festeggiato i compleanni della madre e vissuto momenti felici insieme a tutta la sua famiglia. Rievocare quei ricordi l'avrebbe fatta soffrire talmente tanto da farla esplodere.
I rischi erano alti, lo sapevo, tuttavia non mi rimaneva altra scelta, doveva affrontare ciò che si teneva dentro, liberare ogni emozione, ed io l'avrei costretta a farlo.

Mi detestavo per questo, mi sentivo il cuore lacerato per la consapevole che in seguito mi avrebbe odiato, ma sarebbe stato più tollerabile questo piuttosto che vederla spegnersi a poco a poco. Se solo ci fosse stato un altro modo per salvarla da se stessa le avrei risparmiato ognicosa, ma non mi era venuto in mente nient'altro, e così,
ad ogni passo che facevo, cercavo invano di trattenere tutto quel dolore serrando la mandibola e digrignando i denti, ripetendomi nella testa che lo stavo facendo per il suo bene e per il mio.
Soffriro per lei, soffrivo per me, ed era giunto il momento di darci un taglio.

In lontananza vidi la casa dalle mura ingiallite dal tempo. Era abbastanza carina, si trovava in una posizione isolata, lontana dal paese e ben coperta da sguardi indiscreti. Mi fermai nei pressi di un albero non troppo lontano, Melissa aveva ormai smesso di scalciare e dimenarsi esaurendo le sue ultime forze ed energie, sapevo che aveva bisogno di bere e mangiare qualcosa.

Mi piegai sulle gambe e l'adagiai sul terreno, facendole poggiare la schiena sull' albero dal tronco leggermente ricurvo.
<<Siamo arrivati.>> L'avvisai, mentre le scostavo dal viso una ciocca di capelli che le era caduta davanti agli occhi arrossati, che faticava a tenere aperti.
Aaveva due occhiaie così profonde che spiccavano sul viso molto pallido.

Le sue labbra secche si schiusero appena.
Sospirai e mi passai una mano tra i capelli, nel tentativo di darmi una calmata.
<<Hai bisogno di mangiare qualcosa, prima di affrontare ciò che devi affrontare.>> Le dissi, prima di
sfilarmi lo zaino dalle spalle per poggiarlo sul terreno.

<<Affrontare cosa?>> Chiese quasi in un sussurro, con una voce talmente roca che stentai a riconoscere.

Aprii lo zaino e tirai fuori una bottiglietta d'acqua e svitai il tappo con il timore che l'avrebbe rifiutata.
<<Prima bevi questa.>> Le avvicinai la bottiglia alle labbra e quando le schiuse le feci scivolare un po' d'acqua. Mugolò e subito dopo poggiò la mano sulla bottoglia e iniziò a sollevarla bevendo avidamente.
Non appena le sue dita toccarono le mie, avvertii la familiare scossa lungo tutta la schiena.
<<Ehi, ehi, piano.>> Le dissi, tentando di contrastare la sua forza, ma lei non si fermò e in breve tempo svuotò la bottiglia.

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