21. MENZOGNA COLOSSALE

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MELISSA

Passai tutto il pomeriggio rinchiusa nella mia stanza, travolta dai sensi di colpa.
Come testimone oculare avrei dovuto denunciare Adam per quell'orribile omicidio, ed invece, dopo che mi ero ripresa dallo shock iniziale, fui solo capace di scappare a gambe levate...
proprio come una codarda.

E adesso, sdraiata sul mio letto ad osservare le travi in legno, non riuscivo a togliermi dalla mente l'immagine del corpo inerme di Tommy e l'idea che fosse morto per colpa mia.
Se solo gli avessi chiesto scusa probabilmente adesso sarebbe stato ancora vivo.

Non sapevo se gli amici di Tommy avessero già raccontato tutta la verità al Preside o alla Polizia, oppure se Adam si fosse semplicemente costituito, in ogni modo mi stavo comportando nella stessa maniera in cui l'aveva fatto l'assassino di mia madre. Ero fuggita abbandonando il suo corpo privo di vita. 

Con quale coraggio mi sarei vista allo specchio? E in che modo avrei vissuto pur sapendo la verità?
Sapevo che la cosa migliore da fare era quella di denunciare Adam, ma in qualche modo mi sentivo debitrice. Lui mi aveva salvata, anche se lo aveva fatto nel modo sbagliato.
Non riuscivo a togliermi dalla testa le sue parole: Riferisci a tua cugina cosa ho fatto per te. Si ripetevano nella mia mente, a ciclo continuo, invadendo con prepotenza ogni mio pensiero.

Ma poi, per quale assurdo motivo avrei dovuto dirlo a Kate? Cosa c'entrava lei?

Sussultai non appena un tuono spezzò il silenzio nella stanza.
La pioggia torrenziale scendeva incessantemente da due ore ed io avrei tanto voluto uscire fuori per farmi investire da quella potente e devastante tempesta, magari avrebbe potuto levare di dosso quella orribile disperazione che come un morbo mi stava uccidendo in una lunga e dolorosa agonia.

Due leggeri tocchi alla porta mi distolsero dai mie pensieri.

<<Melissa, tesoro.>> Mi chiamò Kate da dietro la porta per l'ennesima volta. <<Ti prego, apri questa porta.>>

Sbuffai irritata.

Era tutto il pomeriggio che non aveva fatto altro che esortarmi ad aprire la porta. Perché non capiva il mio estremo bisogno di voler stare da sola? Mi infilai la testa sotto il cuscino per non sentirla parlare con la speranza che prima o poi si sarebbe arresa.

<<Voglio solo parlare... perché non lasci che ti aiuti?... Cosa ti è successo? >>

<<Vattene!>> Le urlai contro, esasperata.

<<No che non me ne vado.>> replicò seria. <<Perché fai così? Un tempo mi parlavi di tutto... adesso... adesso mi rivolgi a stento la parola.>>

La sua insistenza mi irritò. <<Ti ho detto: vattene!>>

<<No! Apri immediatamente questa porta!>>

Era furiosa, ma non avevo intenzione di cedere, perciò non replicai.
Quando si ci metteva sapeva essere davvero cocciuta.

<<Guarda che resterò qui dietro tutta la notte se è necessario.>> Mi minacciò, ma io non avevo intenzione di cedere. Se lei era ostinata sapevo esserlo anche io, forse più di lei.

Presi dal cassetto del comodino il mio iPod, infilai le cuffie regolando il volume al massimo e "Runaway" degli Urban Stranger mi trasportò via da quella casa.

Quando aprii gli occhi mi sentii avvolta nel silenzio. Probabilmente Kate si era finalmente arresa.
Avevo le orecchie intorpidite e le tempie pulsavano ad un ritmo insostenibile. Posai una mano sulla tempia, per alleviare il dolore e mi accorsi di avere ancora gli auricolari attaccati alle orecchie.
Me li strappai di dosso e abbandonai l'iPod sul comodino dando una sbirciata al display della sveglia. Erano da poco passate le nove di sera.

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