IX. Ma di tutte la più terribile è l'uomo (Parte 1)

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Il giorno nasceva, levandosi dal letto di rose dell'aurora

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Il giorno nasceva, levandosi dal letto di rose dell'aurora. Mentre i tetti cominciavano a tingersi di vermiglio, e i cittadini ancora erano addormentati, tre uomini stavano per lasciare S. Bevelle, senza sapere se mai vi avrebbero fatto ritorno. La città, bonaria sotto le nuvole d'oro, sembrava promettere loro che li avrebbe di nuovo accolti; anche nel caso in cui la Chiesa di Yevon non lo avesse voluto.

Un capannello di persone si era radunato in piazza, nonostante il cielo fosse solo alle prime fiammelle. Con reverenza e curiosità tutti guardavano l'Invocatore e le sue ricche vesti, senza osare avvicinarsi.

Gli archi a sesto acuto del tempio, al centro della sua architettura colorata e complessa, guardavano i tre eroi con solennità immobile. Subito dietro, i fari della capitale salutavano con alti fasci di luce la notte che moriva, attendendo di chiudere gli occhi e riaprirli al suo ritorno.

Jecht tenne in alto la mano che reggeva la sfera per avere un buon campo di ripresa. Inquadrò Braska, che passava senza accorgersene, o forse senza curarsene, poi si spostò su un più vigile Auron. Il ragazzo, che come al solito teneva la manica sinistra della veste sfilata e penzolante, gli si avvicinò con aria poco amichevole.

«Cosa stai facendo?» gli chiese.

Jecht sospirò. Se Auron continuava ad aggrottare le sopracciglia in quel modo, avrebbe avuto due solchi d'aratro sulla fronte ben prima dei trenta. Il che sarebbe stato un gran peccato, da un punto di vista oggettivo, ma a quanto pareva era inevitabile, dato che Yevon gli comandava di essere così.

Guardandosi bene dall'esprimere i propri pensieri, l'uomo di Zanarkand scrollò le spalle, facendo traballare l'inquadratura.

«Avete detto che sarà un lungo viaggio» si schermì. «Vedremo un sacco di cose fighe, giusto? Così ho pensato di registrare tutto con queste. Per farlo vedere a mia moglie e mio figlio, sai».

Non aveva nemmeno avuto il coraggio di pronunciare i loro nomi. La sua mente viaggiò verso Tidus, ma riuscì solo a ricordarlo mentre piangeva. Per essere caduto, per aver perso la palla, perché gli era volato via l'aquilone dalle dita... frignava sempre. E Jecht odiava chi si lamentava, dato che dentro di sé non riusciva a fare altro.

Per una volta, fu grato alla voce sgarbata di Auron che lo riportò alla realtà.

«Non stiamo andando in crociera!» sbottò il monaco.

Jecht scelse di ignorarlo e di rivolgere la sfera verso un più cortese Braska, che non faceva altro che mostrargli il suo dolce sorriso. Gli venne quasi l'impulso di abbracciarlo, o almeno di allungare una mano verso di lui, ma si fermò ricordando quanto sembrava affilata la spada dell'altro Guardiano e quanto quel tipo fosse sacro e inviolabile come i naos dei templi. Si chiese fino a che punto potesse arrivare il rispetto di Auron senza diventare idolatria.

«Ehi, Braska» lo chiamò, riportandosi su lidi più sicuri. «Non dovrebbe essere un grande evento? Dov'è la gente che fa il tifo? Le ragazze che si disperano?»

La caduta dell'ombra (FFX)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora