XXI. Qualcosa che non possiamo vedere

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I monaci del tempio di Djose devono aver passato giorni terribili, pensò Jecht quando vennero loro offerte delle celle per passare la notte

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I monaci del tempio di Djose devono aver passato giorni terribili, pensò Jecht quando vennero loro offerte delle celle per passare la notte. Le locande non avrebbero collaborato con facilità col sangue del sangue di Alan, e la possibilità di essere accoltellati nella schiena durante il sonno era tutt'altro che remota.

Braska accettò di buon grado, senza discutere: era duramente provato dalla battaglia appena trascorsa, e tornare in città ripercorrendo la strada tortuosa del promontorio era fuori discussione, almeno per le sue gambe.

Le celle erano singole e tutte uguali: all'interno non c'era altro che un letto, una sedia e un piccolo comodino, sul quale erano posati una ciotola con dell'acqua e un panno pulito.

Braska salutò i suoi Guardiani con un sorriso stanco, per poi ritirarsi appena conclusa la cena, mentre Auron si trattenne nella sala principale a pregare il dio su uno dei numerosi altari, come non faceva ormai da mesi.

Jecht lo osservò da lontano inginocchiarsi stringendo in mano il rosario, poi si diresse verso la sua cella per lavare via la polvere dal viso e dai capelli. Passò solo qualche minuto prima che sentisse dei passi pesanti dirigersi verso la stanza accanto alla sua, e gli sembrò molto strano.

Le sue cantilene sono più numerose di così, pensò Jecht preoccupato, ma sapeva che una sua intrusione avrebbe infastidito Auron.

L'atleta continuò a pulirsi la barba, ma il pensiero non lo abbandonava. Sospirò, conscio di ciò che lo aspettava, e uscì dalla stanza, per poi bussare con delicatezza alla porta della cella del compagno.

«Sì?»

«Sono io. È tutto a posto?» chiese Jecht dall'altra parte.

Passò qualche istante di silenzio.

«Sto bene» rispose Auron.

«D'accordo...» disse Jecht, non aspettandosi nulla di diverso. «Controlla bene le ferite, ok?»

L'atleta fece qualche passo verso la sua cella, tanto era vicina a quelle dei compagni.

«Domani mattina guarda se ti è uscito l'ematoma sul fianco» disse Auron all'improvviso. Jecht si voltò verso la porta come se potesse vederlo nella sua stanza.

«Lo farò».

La notte fu più dolce di altre, e il versamento di sangue sul costato non apparve. Se anche Auron avesse avuto un sonno agitato, Jecht non sentì nulla: aveva dormito molto profondamente, ma non aveva sognato. Non si coricava sperando di averli, ma era qualcosa che voleva approfondire.

I tre si incontrarono all'entrata del tempio: Braska si presentò ai suoi Guardiani con volto rilassato, mentre Auron aveva delle occhiaie marcate che non passarono inosservate a Jecht.

«Hai riposato bene, Braska?» chiese l'atleta con un mezzo sorriso.

«Oh, sì! Non dormivamo su un letto morbido da un bel po'» rispose l'Invocatore. «È tempo per me di accogliere Ixion. Spero di non metterci molto».

La caduta dell'ombra (FFX)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora